Averroè: l’unico messaggio di Dio e il dialogo tra religioni
dì Giulia Bertotto, filosofa e giornalista
(Twitter @GiuliBertotto1)
Tra gli spiriti magni, nel limbo della Divina Commedia troviamo il nome di Averroè, celebre filosofo arabo, supremo commentatore di Aristotele.
Era certamente in compagnia di altri virtuosi intelletti, come Ettore ed Enea egli eroi troiani, Lucio Giunio Bruto e Tarquinio il superbo, e una moltitudine di filosofi del calibro di Aristotele, Socrate e Platone, Empedocle, Talete e molti altri. Ma prima di finire nell’aldilà dell’Alighieri, nella sua vita terrena, Averroè nacque a Cordova, nella Spagna musulmana, anno 1126.
Studiò filosofia, astronomia, diritto e medicina, diventando medico di corte. Vantò onori e splendore finché non venne accusato di irreligiosità e quindi, escluso dall’entourage nobile, morì in stato di indigenza e reclusione.
Avicenna, quasi per una sorta di “karma narrativo”, sembra dunque essere stato costretto nella prigionia del limbo dantesco nella sua vita leggendaria, e costretto alla detenzione fisica nella sua vita mondana. Egli era incorso proprio nell’errore che raccomandava di non commettere: aveva esposto la sua saggezza ad uditori incapaci di comprenderla.
Sono due le missioni intellettuali di cui questo grande medico e pensatore si fa carico: riportare la dottrina aristotelica alla sua purezza originale, scrollandogli di dosso le interpretazioni neoplatoniche, come aveva fatto il suo rivale nel pensiero Avicenna, ed elaborare una distinzione ermeneutica tra linguaggio della fede e linguaggio della ragione.
Secondo Averroè la teologia e la ragione non si conciliano sovrainterpretando la dottrina aristotelica, ma piuttosto distinguendo quale tipo di canale comunicativo è più adatto a chi è in ascolto.
A suo modo di vedere, la rivelazione divina era arrivata agli uomini in diverse forme, per adattarsi ai diversi generi di disposizione interiore naturale negli uomini. Tali diverse forme si ordinano per natura ontologica di esse stesse: la dimostrazione razionale, esoterica ed esclusiva dei filosofi e l’argomentazione oratoria, propria delle religioni che si serve di metafore, simboli e il cui linguaggio è mitologico.
L’argomentazione dialettica, propria della teologia, mescola invece entrambi i campi di comprensione. La filosofia costituisce l’intimità elitaria tra Dio e l’uomo, mentre la religione e la teologia si servono di immagini visibili ed esempi concreti per aderire alla dimensione più concreta dei fedeli meno sofisticati.
Si cade nell’errore quando un uomo riceve il messaggio spirituale nel modo a lui non conforme, ma se presi in se ciascuno di questi “ponti” è valido nell’unire Dio e uomo. Averroè riserva un posto privilegiato alla filosofia, ma l’intera gerarchia è sana e funzionale all’armonia della società e al percorso spirituale dell’uomo verso Dio[1].
Il filosofo è in grado di includere queste e di fare un’ermeneutica allegorica delle sure del Corano.
Il profeta, figura di uomo ancora più elevato, ha superato ogni distinzione tra questi lessici della rivelazione, per questo nella piena identità di se stesso e in comunione con Dio, ha sviluppato modi di percepire che si spingono oltre la percezione sensoriale. Il profeta in questa visione è colui che ha integrato perfettamente in se stesso fede e ragione, nel quale insegnamento teologico e autonomia della razionalità coincidono, per questo il profeta ha il carisma della veggenza, il dono della visione oltre il tempo e il potere della fascinazione sugli uomini e dell’influenza sulla materia.
Potremmo dire, con un paragone un po’ azzardato e irriverente, che la rivelazione divina ha formulato diverse strategie di comunicazione per differenti “target”. E il divino non poteva certo sbagliare nel raggiungere i suoi destinatari. Se il destinatario non comprende il messaggio che riceve è perché è entrato in contatto con uno dei linguaggi non adatti a lui. La perfezione di Dio si comunica perfettamente agli uomini, se essi entrano in risonanza con quella a loro più affine.
Averroè non intendeva distinguere per dividere, ma distinguere per mostrare che solo quando si confonde la comunicazione più adatta tra quella filosofica e teologica, si è divisi.
La perfezione divina si articola nel mondo con differenti modalità, colori e manifestazioni, tutte in accordo. Gli insegnamenti di Averroè sulla compatibilità tra gerarchie di comprensione del Divino, insieme alla negazione della provvidenza e dell’immortalità delle anime individuali, entreranno in conflitto con la religione islamica e nel Medioevo con quella cristiana. Il mondo cristiano si divise tra averroisti e anti-averroisti, come Bonaventura, Alberto Magno e Tommaso d’Aquino.
Nel 1210 un sinodo episcopale a Parigi bandiva i commenti ad Aristotele di Averroè. E quindici anni dopo il Papa proibì qualsiasi studio e divulgazione di Averroè a Parigi. Tuttavia il filosofo medievale Pietro Abelardo giungerà ad alcune medesime conclusioni del nostro pensatore berbero.
Abelardo non conosceva i commenti di Averroè, ma solo frammenti disordinati di Aristotele[2]. Nel suo “Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano” si impegna per una convivenza tra le religioni monoteiste nate dalla radice biblica, quindi ebraismo, cristianesimo e islamismo.
L’opera è una sorta di disputa in cui si confrontano un ebreo, un cristiano e un filosofo. I tre personaggi appaiono in una visione notturna ad Abelardo e discutono di come vada interpretata la rivelazione alla luce della ragione, quindi come vada concepita la legge mosaica, il significato spirituale della circoncisione, il rapporto tra autorità e ragione. Abelardo aspira forse ad una confluenza tra queste fedi in virtù di una religione naturale da cui esse traggono il loro significato recondito. La tolleranza religiosa in Abelardo non nasce da una sorta di fiacco “pacifismo” retorico, ma piuttosto da una consapevolezza metafisica ed ontologica che precede le peculiarità delle differenti tradizioni.
Nell’opera viene detto che Dio stesso, nelle sacre scritture, dichiara di sedere su un trono: ma l’invito di risposta è imparare ad «interpretare filosoficamente più che ad attenerti alla lettera e sapessi comprendere che ciò che si dice di Dio, parlando di Lui come se avesse un corpo, non deve intendersi materialmente alla lettera, ma in senso mistico attraverso similitudini»[3].
Il Dialogo è incompiuto, ma noi possiamo continuare questo sogno di armonia tra religioni diverse, questo antico e modernissimo incontro tra culture, oggi più che mai indispensabile.
[1] CFR Aa. Vv L’intelligenza della fede. Filosofia e religione in Averroè e nell’averroismo, a cura di M. Campanini, Lubrina, Bergamo 1989.
[2] CFR Rosa Menocal, Principi, poeti e visir. Un esempio di convivenza pacifica tra musulmani, ebrei e cristiani, Il saggiatore, Milano 2009.
[3] Pietro Abelardo, Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano, Bur, Milano 1992, p.253.
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