Cosa ha insegnato la pandemia a una società che ha trovato nella morte il suo ultimo tabù?
Twitter @GuidaLor
——————————
L’ansia è un’espressione della paura che conosciamo tutti, uomini e animali. La bestia, punita per il suo errore, tende a non avvicinarsi più alla mano del padrone: se è costretta a farlo trema, poi si calma.
Così gli esseri umani torneranno a convivere gomito a gomito, una volta finita ufficialmente la pandemia, lo spettro del coronavirus.
“Adda passà ‘a nuttata”, e su questa certezza non deve piovere. La fiducia, oggi, va difesa con ogni forza, preservando un futuro che rischia di implodere nei tempi dilatati delle giornate dietro al vetro, mentre le piante fioriscono e ci imponiamo la censura della bellezza per un bene superiore, individuale e sociale.
La vita che celebriamo in ogni atto tornerà a riempire le ore, a complicare i piani, a regalare sorprese.
Questo deve essere il punto di partenza per ogni riflessione manifesta, per ogni dichiarazione pubblica, per ogni notizia passata dai media.
La celebre intuizione attribuita a Eraclito, passata alla storia come Panta Rei, ci informava già nel 500 A.C. che tutto scorre, nulla è mai uguale. In qualche modo, la legge del filosofo si farà ancora più tangibile per quanti l’abbiano data per scontata nella fissità dei doveri quotidiani.
Nell’illusione della routine, la pandemia si è inserita come un bastone fra le ruote delle nostre certezze, facendo sentire a una società che ha trovato nella morte il suo ultimo tabù, la nuova durezza dell’asfalto su cui ha sbattuto il muso.
“Muso” come espressione gergale per descrivere la forma che rimanda alla mescolanza fisiognomica e di atteggiamento fra uomini e i primati, laddove la pandemia ci ha fatto riscoprire primordiali contrasti, risposte irrazionali, quasi animalesche, contro le ragionate condotte dell’homo novus, passato dal carretto all’ipertecnologico.
Assistiamo alla paura atavica dell’invisibile e alla forza concreta di una razionalità che si è tradotta in azione paradossale, ovvero nello stare fermi, evitando il maggior numero di contatti con gli altri, rispettando le distanze.
Una volta terminata l’emergenza, premesso che i tempi per un vaccino potrebbero essere ancora lontani, la vita tornerà a svolgersi nel contrasto fra queste emozioni, fra paura e razionalità, fra ansia per il futuro e immanenza del presente, nell’assolvimento dei nostri impegni sociali.
Oggi, rileggendo tanti saggisti e filosofi possiamo tratteggiare il futuro, dando, allo stesso tempo, conferma ad alcuni presentimenti che hanno trovato riscontro in questo ultimo mese.
In Calasso che dichiara come “l’uomo secolare non abbia più la percezione del divino e si senta smarrito, sostituendo al rituale la procedura”, ci osserviamo obbedire fiduciosi agli ordini degli scienziati, così come si seguiva nella ricerca della salvezza ultraterrena l’altare portato a spalla nelle processioni di un’Italia che fu. Tentativi, ai quali crediamo assegnando il marchio dell’infallibilità alla scienza.
In Nietzsche, che afferma come “chi poco possiede tanto meno sarà posseduto”, in tanti hanno messo sulla propria bilancia il vero valore di ciò a cui hanno scelto di assoggettarsi, rivalutando il peso ultimo delle loro relazioni e ambizioni.
Attorno al nostro essere più profondo e in alcuni gesti irresponsabili di questi giorni, la risposta su come ci comporteremo in futuro mi trova ragionevolmente tranquillo: l’istinto è più forte della paura, l’uomo è portato alla socialità; la gabbia sadiana genera solo mostri.
Per questo torneremo a uscire e vivere come prima.
L’abbraccio, il bacio, il contatto, la convivialità sono elementi intriseci in quell’animale sociale che è l’uomo. Quando? Presto, speriamo.
Se “la paura rafforza il desiderio” come scrive Bauman, allora avremo ancora più voglia di uscire, di incontrarci: sapremo superarci ancora una volta.
ABSIT OMEN!