Dentro ad “Uno, nessuno e centomila”: l’interpretazione del nostro psicologo
Come mi è già capitato per altri libri, anche con questo mi è parso di sentire subito una certa affinità da prima ancora che ci conoscessimo, un voler cercare a tutti i costi, come fosse un capriccio, di leggerlo. Così sono uscito, due anni orsono, ad acquistarlo insieme ad un quadernetto.
Ho subito pensato alla differenza tra Vitangelo Moscarda e Gengè, a come rappresentassero due facce di una medaglia che conserviamo gelosamente e con dolore nelle nostre vite. Ho cercato di studiare il personaggio dalle sue diverse angolature: gli ho dato dell’ossessivo e poi del narcisista, salvo poi trovarmi inevitabilmente a dover staccare l’etichetta e a leggere la sua vita, il suo periodo di crisi, per quello che sono al di là delle categorie psicopatologiche.
Perché dietro ad un’etichetta ci sono elementi innanzitutto, e dietro a quelle che io ho cercato di appioppare al Moscarda e a Gengè ce n’è una che emerge con forza: il vuoto. Un vuoto scavato a fondo da pensieri ripetitivi così forti che spingono a chiedersi da cosa nascano l’uno e l’altro e come siano legati vuoto e pensiero.
Domande che spingono a chiedersi perché non si possa stare bene nelle vesti di uno, di dieci, di centomila, dovendosi accontentare di essere nessuno senza poter star bene neanche così, poiché essere nessuno significa essere tutti, e non potendo l’uomo ammettere al suo interno né il niente e né tantomeno il tutto, egli si vede costretto al sentimento del vuoto.
Parliamoci chiaro: l’uomo deve essere qualcuno. Ciascuno di noi deve esserlo, non tanto per gli altri, poiché sarebbe impossibile, ma almeno per se stesso. Un uomo deve essere qualcuno per se stesso. E se non ci riesce, ahimè, si mette male.
E allora il mancato raggiungimento di questo essere qualcuno si lega all’elemento così diffuso e soggettivamente doloroso del senso di falsità. Se non riesco ad essere qualcuno, qualcuno in particolare intendo, come è possibile che io riesca a trovare e a raggiungere la vera parte di me, che in ogni caso mi alberga? E viceversa, se non riesco a riconoscere e ad adeguarmi al mio vero Sé, come potrò io diventare qualcuno?
Si tratta di domande a cui tutti dobbiamo rispondere in prima persona, prima o poi, per evitare di incappare in una vita falsa. È possibile uscire dal circolo vizioso della falsità attraverso la riappropriazione della propria verità, del proprio vero sé; in alternativa, si soccombe come il Moscarda, che dopo aver ucciso Gengè si toglie la vita, passando dal nulla soggettivo al nulla oggettivo, a ciò che scompare dai propri occhi e da quelli degli altri, con una totale sostituzione di sé con le ‘cose esterne’.
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