Diogene di Sinope: il cosmopolita in una botte
dì Giulia Bertotto, filosofa e giornalista.
Twitter @GiuliBertotto1
Diogene di Sinope (412 a.C. – 323 a.C.) chiamato anche “Il Socrate pazzo” è un personaggio della storia della filosofia antica che ci viene tramandato come eccentrico e in un certo senso divertente. Fu uno dei fondatori della scuola cinica con Antistene, il quale è stato porobabilmente suo maestro.
L’appellativo di “cinici” deriva dal paragone con il randagismo dei cani. Tali filosofi non si curavano dei rapporti sociali; cane era infatti un altro soprannome di Diogene.
Sappiamo bene che questa vulgata è ormai da rivedere, per via del fatto che i cani in branco hanno invece precise regole di convivenza e una gerarchia sociale complessa e piuttosto rigida, alla quale chi non si adatta, spesso soccombe.
Un’altra etimologia ci dice che forse il termine “cinico” deriva da “Cinosarge” l’edificio ateniese luogo di nascita della corrente dei cinici.
Ciò che sappiamo dei cinici lo apprendiamo da “Vite dei Filosofi”, una delle fonti più ricche della storia della filosofia greca, stilata dallo storico Diogene Laerzio.
Il loro ideale di virtù consisteva nell’autosufficienza dagli altri e dai bisogni corporei, perseguita con la povertà, l’autonomia dalle comodità, dai vincoli civili e dai costumi sociali.
Gli uomini in società sono infelici, rincorrono desideri vani, piaceri vuoti, dunque per acquisire la felicità che corrisponde alla virtù tutto il resto deve essere bandito, la società deve essere respinta, la famiglia abbandonata. La ricerca della felicità per mezzo del distacco è l’unico fine dell’uomo.
Solo nel profondo di se stessi c’è la verità che coincide con la libertà. Così Diogene pare abitasse in una botte e possedesse solo una ciotola per bere.
Un concetto che forse per noi è difficile da comprendere oggi, è che per gli antichi movimenti filosofici e spirituali-ascetici, la rinuncia corrispondeva a libertà, non a sacrificio. O meglio, il sacrificio non era il fine ultimo, ma solo il mezzo per ottenere tale libertà.
La rinuncia ai vizi, al possesso, agli oggetti, alle zavorre materiali e terrene, perché nessuna appartenenza significa nessun obbligo e nessuna illusione.
Questo paradigma lo ritroviamo, seppur con le non trascurabili differenze, anche nei mistici di tutti i secoli: nel sufismo islamico, nel pensiero del tedesco Meister Eckhart, nella nobile dottrina del buddhismo, nella religione cristiana, ad esempio quando San Francesco si tolse il mantello per donarlo ad un povero e al contempo liberare se stesso.
Diogene di Sinope fu il primo a definirsi cittadino del mondo: il suo cosmopolitismo è però diverso dall’atopia di Socrate (dal greco “senza luogo”). Era un’affermazione straordinaria, perché in quell’epoca l’appartenza alla propria polis era motivo di vanto. Ma Diogene apparteneva solo alla ricerca intellettuale.
Un messaggio difficile e al contempo attuale, oggi che il mondo globalizzato è spaccato tra sovranismi e anti-sovranismi. Un mondo in cui l’esasperazione demografica rende ancora più critico il concetto di origine e radice, nazionalità e provenienza etnica.
L’argomento è problematico perché inasprito sia dal punto di vista di chi inneggia alla sovranità nazionale (rendendolo motivo di discriminazione), sia di chi ne rivendica “l’indifferenza” per ragioni talvolta più ideologiche che storiche, dimenticando che l’appartenza etnica è una questione antropologica e culturale prima che politica.
Diogene viveva in tutt’altro contesto e, ribadiamo, rifiutava la sua appartenenza ad un luogo del mondo, per sottrarsi al mondo: non si trattava dunque di un’istanza politica ma filosofica.
Restano celebri due aneddoti sul nostro filosofo della botte: Diogene era solito bere con una ciotola, sua unica proprietà. Un giorno vide un ragazzo che beveva con le mani, sorpreso scagliò via la sua ciotola con un gesto di diniego, perché non aveva vissuto nell’umiltà di quel giovane che traeva l’acqua nei suoi palmi.
Un altro episodio vede Diogene vagare in pieno giorno con una lanterna in mano, dicendo di essere alla ricerca dell’uomo. Di colui che vive nella verità, e non nei desideri effimeri e nei vizi del corpo, che non antepone potere e ricchezza mondani e mortiferi al potere e alla ricchezza della conoscenza.
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