Dogman: uomo, cane, bambino
Ci sono film così potenti che dal momento in cui inizia la visione non si vede l’ora che arrivi la fine, in una sensazione viscerale che risponde per tutta la durata della pellicola, scena dopo scena, dialogo dopo dialogo, alla storia proiettata sullo schermo.
È senz’altro il caso di Dogman, film del 2018 diretto da Matteo Garrone, che racconta una porzione della storia di un uomo, Marcello. Un uomo senza tempo, un uomo-cane, Dogman. Vive in una tana più che in una casa, mangia dallo stesso piatto del suo cane, dorme nello stesso letto.
Un uomo legato all’amico Simone, personaggio del tutto ‘animalesco’, da una relazione senza pensiero, fatta di sole azioni e reazioni d’istinto, come all’interno di un piccolo branco di cui Simone è il maschio alpha e Marcello l’ultima ruota del carro.
Un uomo, Marcello, che somiglia dunque a un cane, ma che si sovrappone all’immagine del bambino nel tono di voce flebile e ovattato, nello sguardo trasognato, nel sorriso ingenuo. Un bambino puro e innocente che porta avanti la sua esistenza per i cani puri e innocenti con cui si identifica. Un bambino che non può sottrarsi però, come tutti gli uomini, alla creatura informe e sanguinaria che lo abita, travolgente in una violenza che trabocca senza far rumore, come una colata lenta.
È la differenza più grande che si può osservare tra Marcello e il suo amico/carnefice Simone, che rassomiglia più a un vulcano che erutta violentemente ad ogni minima scossa del terreno, per qualsiasi piccola frustrazione della realtà. La mina vagante del quartiere che nessuno riesce a contenere, di cui il quartiere stesso medita di liberarsi.
Marcello è invece un bambino benvoluto da tutti che, silenzioso, ascolta i discorsi dei grandi al tavolo dell’osteria dove si incontrano nella pausa pranzo, mentre cercano di risolvere problemi, scelgono se rivolgersi alla giustizia dell’istituzione o a quella del fai da te per risolvere la ‘questione Simone’.
Un bambino coinvolto come per caso nella vita di adulti con cui si ritrova a mangiare, alla sala giochi, al calcetto settimanale. Un bambino tra le nuvole, costantemente in balia degli altri. Un bambino che sta bene con chiunque, e che a chiunque obbedisce inerme, come un cane docile e socievole. Un bambino che, come tale, ha come unica amica una bambina, la figlia, con cui sembra trattenere una relazione del tutto simmetrica.
Ma Marcello è anche un uomo buono succube del bullo che sembra non sentirlo, come sembra non sentirlo nessuno, in una dinamica che ricorda per certi versi quelle diadi adolescenziali di bullo-gregario, in cui a nulla servono i tentativi del più debole di esprimere il proprio rifiuto, il proprio dissenso, la propria parola, silenziata dalla voce e dalla manipolazione del più forte.
A nulla vale l’esperienza del tradimento del vicino negoziante, altro grigio personaggio del film, ‘amico’ a sua volta incapace di sentire la voce di Marcello; a nulla serve l’esperienza del carcere.
Dogman sembra non vivere nulla di ciò che accade in senso trasformativo. Niente può lasciare spazio alla formulazione di un pensiero.
Ad una più attenta osservazione, allora, l’uomo buono cede il passo a qualcos’altro, a una creatura che è sempre meno uomo e sempre più animale. L’uomo comincia a poco a poco a spogliarsi per mostrare la sua vera identità, ma la sua vera identità è un buco: Marcello non esiste, ma lo scopre solo l’attonito spettatore e forse il protagonista stesso nel lungo, silenzioso primo piano finale.
La sua esistenza, semmai, appartiene al livello della bestia, dell’animale da educare secondo la volontà del momentaneo padrone, come illustra la drammatica scena in cui Simone, dopo aver scoperto che Marcello ha distrutto la sua moto, lo prende per il collo e lo conduce lì dove ha sbagliato, a spingere il muso sanguinante contro la carrozzeria ammaccata, come si fa con i cuccioli che non trattengono i propri bisogni in casa, proferendo in modo angosciante per colui che ascolta proprio quelle stesse parole che chi ha allevato un cucciolo conosce bene “guarda che hai fatto, non si fa”.
Ma non c’è da stupirsi: via via che la storia scorre, Marcello è sempre meno uomo e sempre più bestia, in una trasformazione che il film metaforicamente accompagna in un diradarsi dei dialoghi, nello scomparire della parola, fino a giungere alla struggente scena in cui, come un cane, Marcello abbaia con la bava alla bocca parole al vento, in direzione dell’allucinazione visiva degli amici di una volta che giocano a calcetto senza di lui, ma che continuano a non sentire il Dogman che grida loro di seguirlo per vedere che cos’ha combinato.
Ci sono poi tanti altri personaggi, protagonisti quanto Marcello: i cani, testimoni silenziosi che accompagnano come in un corteo funebre la morte dell’uomo mai esistito nell’affermazione della sua bestialità: oggetti ideali all’inizio del film, cui a poco a poco Marcello si avvicina, in un passaggio psicotico dalla venerazione del cane come essere prezioso e insostituibile all’incarnazione del cane stesso, escluso dall’uomo e dall’umanità.
Cane che rappresenta un essere puro, ingenuo osservatore della violenza dell’uomo contro l’uomo da cui rimane estraneo, testimone inconsapevole e a-cerebrale di un’umanità vomitata e quindi espulsa sulla sabbia e tra le palazzine di una squallida località di mare. Testimone inconsapevole del mondo, come Marcello lo è stato della propria vita.
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Foto : https://pixabay.com/it/photos/dogman-rabbitgirl-spitalfields-4863999/