Draghi e il desiderio di un salvatore
Nell’epoca in cui il pop più iconico, dai loghi alle sigle fino al culturismo della personalità, segna l’avvicendarsi degli eventi politici e sociali, non fa scalpore la reazione del popolo social alle parole di Mario Draghi in occasione del Meeting di Rimini. Il limite della cultura pop, però, è sempre stato quello di sacrificare il messaggio in funzione del messaggero.
Qualche minuto di eloquio e gli italiani, in controtendenza con la piena iconoclastia che investe il mondo dal “black lives matter”, hanno deciso di costruire subito altarini e edicole votive nella speranza di vedere ergersi l’ennesimo homo novus (72 anni), capace di spazzare via – da solo, ca va sans dire – una classe politica insufficiente non tanto nelle promesse quanto nell’attuazione di riforme in grado di far uscire dal pantano un Paese che ha accumulato decine di problemi strutturali differenti.
In questo senso, il discorso dell’ex Governatore, pur condivisibile nei suoi passaggi su scuola e capitale umano, non giustifica l’apparizione del salvatore cantata ai quattro venti nelle ultime ore, perché nella differenza fra la teoria e la pratica insiste un campo dal quale Draghi continua a tenersi lontano, quello melmoso, brutto, sporco e cattivo della politica.
Stante una lezione di organicità del discorso offerta a gran parte dei nostri rappresentati istituzionali attuali, la consistenza del messaggio dell’ex Governatore non ha corpo, non si traduce in numeri, interventi, nell’impatto sul tessuto sfibrato di un mondo travolto dalla pandemia, per un evento fuori dalla portata di qualunque amministratore, comunque la si pensi.
Se sulle capacità di Mario Draghi come uomo di economia e finanza non si può discutere, renderlo il bagnino capace di rianimare un sistema con l’acqua alla gola da vent’anni rimanda al solito atteggiamento emotivo di una società, la nostra, fortemente preoccupata e, dunque, ben disposta a rivoluzionarsi, seppur solo a parole o fino a un centimetro dal proprio giardino.
La politica è roba sporca e Draghi lo sa; quella italiana poi, è segnata dall’incompetenza di molti suoi protagonisti: ma la la politica è anche gestione di interessi e di equilibri sociali sui quali si deve intervenire con l’accetta in alcuni momenti, soprattutto in un periodo di transizione come questo, tanto decisivo e imminente.
Per questa via, il Professore esaltato dalla folla quanto durerebbe nel confronto con i sindacati della scuola? La sua figura, pur autorevole, come potrebbe cambiare la mentalità di una società che teme la chiusura dei bar per lo smartworking? In che misura Mario Draghi e un suo eventuale Governo di tecnici – perché non sarebbero certo i grillini o i leader gelosi del culto della personalità ad accompagnarlo – riuscirebbe a confrontarsi con il dramma di una generazione che va dal 1985 al 1995, cresciuta e invecchiata nel segno del precariato e dei salari da fame?
Queste risposte, a domande che gli sbandieratori dell’ultimo salvatore nemmeno si pongono, non ci sono semplicemente perché Mario Draghi non le concede.
Se il settantaduenne Mario Draghi scenderà mai in politica è certo che alla prima riforma del lavoro, al primo aumento delle tasse, al primo cambio di passo richiesto all’imprenditoria, il popolo che oggi lo esalta vorrà buttarlo giù, obbedendo a quell’eterno ritorno che ci fa guardare sempre fuori da noi, alla ricerca di soluzioni rapide, le stesse di cui Draghi stesso nega l’esistenza.
Ma la società è sorda a quel che non vuol sentire e se Draghi parla di complessità, il popolo traduce in pillole. E già quì si comprende il fraintendimento che avverrebbe il giorno in cui l’ex Governatore prenderà il bisturi in mano per intervenire su un corpo sociale sempre anestetizzato dalla polemica del giorno eppure mai abbastanza accondiscendente nei confronti di chi ha deciso di porre al comando dell’operazione.
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