Rainer Maria Rilke – I sonetti a Orfeo
Mi pare che questa quarantena, il dilatarsi del tempo, mi abbia molto avvicinato alla poesia, quella modalità di comunicazione che più di tutte rappresenta il tentativo dell’inconscio di eruttare sul mondo esterno, la forma d’arte che più di tutte tenta di avvicinarsi al compito impossibile di unire parola e Cosa. Ho così preso in mano “I sonetti a Orfeo” di Rainer Maria Rilke e ho cominciato a leggere. Prima la vita e le opere, come un bravo studente, poi il testo vivo della raccolta. Ho fatto diverse scoperte e vorrei condividerne qualcuna con chi leggerà.
Credo di aver capito che approcciarsi alla poesia di Rilke (e una volta di più alla Poesia in generale) è un’impresa ardua e quasi mai intuitiva, principalmente per due motivi: da una parte, per leggere una poesia decentemente è necessario azzeccare il ritmo che il poeta ha impresso nel testo. Non sempre ci si riesce: ci sono volte che, terminata la lettura, ne rimaniamo soddisfatti ed estasiati perfino, ed altre in cui un po’ frustrati cerchiamo di riprendere un filo che si è annodato, magari a metà di una strofa.
Potrebbe dipendere da tanti fattori, ma credo che in primo luogo sia il desiderio profondo di comprendere (cum prehendere), ovvero di scendere (o salire) al piano in cui si è trovato il poeta in quel momento, là dove si è posata la penna a marcare ciascuna parola. Se questo desiderio è forte e se rispettiamo la strada che il poeta ci ha indicato, potremmo sentire per un attimo una scintilla di piacere, di comprensione. Il sentiero può essere in salita, talvolta potremmo incontrare un sasso che ostruisce il passaggio. Altre volte ancora siamo costretti a fermarci per riprendere fiato. Ma al termine della lettura, se ce l’abbiamo fatta, ci sentiremo più completi, perché avremo trovato nuove parole per conoscerci, per raccontare a noi stessi e agli altri la nostra storia.
Già, perché due storie si incrociano ogni qual volta una poesia viene letta, e non credo che sia così sbagliato pensare che entrambe si arricchiscono, prendendo qualcosa l’una dall’altra. D’altronde lo stesso Rilke lo afferma: “Noi ci tocchiamo. Con che cosa? Con dei battiti d’ali, / con le lontananze stesse ci tocchiamo”.
Rilke, un poeta affascinante. Fino a sei anni di età la madre lo ha vestito come una femmina, trattato come una femmina, costretto ad essere come una femmina: la sorella morta prima della sua nascita. Un bagaglio niente male per affrontare il viaggio della vita. E proprio questo diventa la vita di Rilke: un viaggio alla ricerca.
Russia, Italia, Svizzera, Egitto, Scandinavia, Algeria, Tunisia, Austria: una vita nel mondo, senza mai trovare un posto dove mettere radici, senza mai centrarsi attorno a un proprio nucleo stabile. La produzione di poesie sembra però poter fermare l’emorragia identitaria mai veramente guarita, talvolta con periodi che la critica ha definito ‘miracolosi’, ma che ad un occhio non eccessivamente clinico risultano episodi maniacali veri e propri.
Tra il 2 e il 5 febbraio del 1922 Rilke scrive venticinque sonetti; tra il 15 e il 23 febbraio ne scrive altre ventinove: nell’arco di tre settimane “I sonetti a Orfeo” sono completati.
E che cosa scrive? Il tema della raccolta è certamente la morte, che fa parte della vita e che insieme ad essa si trova nel contenitore dell’esistenza che scorre, del flusso di cui l’uomo deve accettare di far parte, ispirandosi a colui che solo può viaggiare dal mondo dei vivi a quello dei defunti: Orfeo, simbolo di metamorfosi e, per l’appunto, passaggio. Alla poesia il compito di incarnare tutto questo andirivieni simbolico e spirituale, in quanto essa è il prodotto umano in grado di salvarlo dall’angoscia e, infine, proprio dalla morte, sublimata in “parole durevoli” e “realtà d’arte”. Sempre e comunque immersi nell’incertezza: “Amici: e noi, sappiamo? Non sappiamo? / L’una risposta e l’altra disegna / l’ora esitante sul volto umano”.
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Fonte: Rilke “I sonetti a Orfeo”, introduzione di Maddalena Longo, Ed. Garzanti.
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