Il caso George Floyd: gli Usa finiti in un film horror. E c’era da aspettarselo
dì @GuidaLor
Dalla sequenza di violenze registrate negli USA, l’analisi delle dinamiche sociali che hanno generato un moto di protesta quanto mai pericoloso per la democrazia più potente del mondo, rischia di passare sottotraccia, offuscata dagli scontri, dal sangue e da qualche arresto eccellente fra i tanti vip ben disposti verso ogni battaglia per la giustizia.
La svolta emotiva nella storia di George Floyd è ancora una volta rappresentata dalla forza delle immagini, riprese da reporter per caso e diffuse in prima istanza sul web.
Che un afroamericano fosse brutalmente arrestato, malmenato, sottomesso e, successivamente, trovasse la morte anche o per causa dell’intervento della polizia statunitense, non è una notizia unica nel suo genere. E purtroppo non lo sarà nel futuro a breve termine.
Piaccia o meno, la realtà di sopraffazione di una certa “America Bianca” esiste e si perpetua da secoli.
In questo caso, la differenza fra questo evento e quelli in archivio, risiede nelle conclusioni e nel modo in cui la storia si è presentata agli occhi di un mondo frustrato dalla clausura del lockdown ma, proprio a causa di tale forzata condizione, tornato a disporre di un tempo per la riflessione che la quotidianità pre covid non consentiva.
La mediaticità del caso Floyd, sommata alle immagini dei saccheggi, degli scontri, delle sparatorie, delle intimidazioni e di quanto fruibile sul web, lascia pensare che una società costruita sulla cultura cinematografica, perno della narrazione statunitense ben più della sua letteratura, avrebbe dovuto mettere nel conto di finire, prima o poi, all’interno di un film horror.
I problemi sociali degli Usa, oltre la disparità salariale ben nota, sono dovuti alla mancanza di una “cultura della cultura diffusa”, con un sistema scolastico che fa acqua da tutte le parti e si rispecchia nell’ignoranza di un popolo incapace di superare nel 64% dei casi i test per l’ammissione sottoposti agli immigrati; nel silenzio di un sistema sanitario iniquo; in una storia ancora agganciata a quel “sogno americano” che soddisfa poche decine di persone ma riesce a farne fantasticare milioni.
Quando si analizzano le faccende americane bisogna essere consapevoli di un pregresso in cui la martellante potenza delle immagini diffuse, dalla vita dei magnati alle star di Hollywood, fino ai campioni dello sport, ha oscurato la realtà di un popolo che cessa di acquistare birra “Corona” per l’assonanza con il nome del virus o si inietta candeggina in vena spronata dal proprio Presidente.
Gli statunitensi vivono nei loro film: nella magia di una favola, nell’esaltazione di una biografia. Nel giro di poche settimane, sono scivolati prima nel genere catastrofico, con la scellerata gestione dell’emergenza coronavirus e di seguito nell’horror, con il caso Floyd e i suoi effetti.
Volendo spingere tale ragionamento al limite, gli Stati Uniti si sono tanto aggrappati alla forza dei loro loghi, delle pellicole e delle immagini, fino a diventarne vittime capaci di destarsi solo davanti a esse, con il dramma di una emotività che accompagna e governa ambo le parti, quella di chi governa e quella di chi protesta.
I social, altra creazione made in USA, stanno compiendo il resto, con la caccia alla statua da abbattere e il post da preparare per il proprio follower di riferimento.
Se la fine del primo tempo è lontana, la sceneggiatura è impazzita e il regista latita, il produttore, Donald Trump, non sembra in grado a spingere il tasto stop ma si diletta a giocare, per assurdo, nell’interpretazione del cattivo, l’unica che sembra riuscirgli con una certa naturalezza.
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