Il Senato delle vacche: crisi e imbarazzo
In un tempo di guerra come quello che stiamo vivendo, la scelta di guidare il Paese in ogni condizione – e ad ogni costo – anima il Presidente del Consiglio e ciò che rimane della sua maggioranza. La caccia al Senatore prosegue nell’imbarazzo generale, tanto per le modalità frenetiche del corteggiamento, quanto per i talent scout coinvolti.
La politica-mercato che avrà termine solo martedì, con il decisivo voto in Senato, rincorre un countdown troppo veloce per assolvere la forma o giustificare l’azione nell’ideale, regalando al mondo uno spettacolo indecoroso del nostro Paese, occupato al limite del gioco democratico nel riesumare cariatidi del secolo scorso, mentre il nuovo che avanza continua a puzzare di naftalina o si nasconde nelle combriccole accademiche spaventate dagli esami della realtà.
<LA MAGGIORANZA SAI, E’ COME IL VENTO>
Quali prospettive si possono disegnare in queste condizioni, dentro un Paese già impegnato nella corsa contro il virus, il complesso recovery plan e la prossima ondata di disoccupati?
Laddove l’osservazione senza interesse dovrebbe essere privilegio della stampa, l’analisi partito per partito traccia un quadro desolante nella pochezza delle idee e dei programmi. Con la tragedia sociale che matura fuori dai palazzi del potere, le telefonate si moltiplicano, la politica si piega alle regole del mercato e l’urlo social dei nostri rappresentanti non suona meno indecoroso di quello a stelle e strisce.
L’accanimento sul cattivo di turno, in questo caso Matteo Renzi, non può nascondere l’imbarazzo di una controproposta politica misera, scoordinata e irreale nell’intenzione delle sue realizzazioni.
Il grillismo è arrivato all’ultimo stadio del suo trasformismo ideologico. Il sogno che ammaliò milioni di italiani è finito.
L’ultima rivalutazione dei transfughi, oggi detti costruttori, si somma al limite dei mandati, cancellato con dribbling dialettici poco convincenti e trova una plastica raffigurazione nella disperata presa sui bordi della scatola di tonno dalla quale i protagonisti stellati non vogliono più uscire.
Nel PD di Nicola Zingaretti, l’anonimato è diventato linea di azione organica, modus operandi collaudato.
Il partito che voleva riscattare il riformismo europeo dell’Ulivo e dei cugini più o meno lontani, ormai è ripiegato su stesso come l’Impero Ottomano dell’800′: gigante dai piedi d’argilla in cui le molteplici istanze (lavoro, diritti civili etc.) vengono disattese al ritmo dei compromessi che lo costringono a un immobilismo di fatto.
Le isole delle rose democratiche, ovvero micropartiti come LEU e transfughi vari, continuano a essere endemici dei Governi arcipelago che caratterizzano la nostra democrazia: realtà deboli all’esterno e fragili al loro interno, tanto nei rapporti di forza quanto nello svolgimento di un’azione chiara e granitica.
LE OPPOSIZIONI E IL QUIRINALE
Il tramonto di Forza Italia conta le sue ore nelle rughe di Silvio Berlusconi e nell’inutile maquillage degli esponenti di punta rimasti alla corte del Re.
Un disfacimento in atto da un lustro che non trova eredi e lascia spazio al concentrato di utopia autarchia dei Fratelli D’Italia o al grottesco di una Lega incapace di parlare anche al suo elettorato più fedele, ovvero quel nord dell’imprenditoria che naviga – anche per proprie colpe- su una zattera di legno nel mondo 4.0, inseguito dagli incrociatori delle multinazionali e appeso alla flessibilità dei contratti per gli ultimi, disperati colpi di remo.
La prospettiva di vedere al Governo del Paese questa destra spaventa anche dalle parti del Quirinale.
Il Presidente, Sergio Mattarella, divenuto certamente icona pop grazie al carisma e l’equilibrio dimostrati nella tempesta di questi anni, ha forse dimenticato troppo spesso l’utilità del pugno sul tavolo, qualcosa di pertiniana memoria che certo stonerebbe con il personaggio ma non con la situazione.
Ancora poche ore e si conoscerà il destino politico di un Paese disorientato da un anno di guai e reclusione.
Se l’esperienza Conte 2 dovesse continuare, sarà difficile capire quale direzione programmatica possa prendere l’esecutivo dei costruttori, ora che PD e M5S non hanno più nemmeno un “carissimo nemico” con il quale confrontarsi le scintille rischiano di essere quotidiane e il fallimento orfano di terzi a cui addossarlo.
L’obbligo sopra ogni prospettiva è quello di una riforma elettorale che spazzi via i micro partiti e muova nella volontà di una stabilità politica necessaria per governare un futuro che oggi si presenta a tinte fosche.
L’auspicio, acuito dal ritorno sulla scena di personaggi della seconda, tragica repubblica, riguarda la discesa in campo di tutte quelle forze, professionali e accademiche, oggi riunite in think tank e associazioni varie, interessanti nella proposta ma ancora nascoste nel comodo mondo del possibile.
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