“Il sergente nella neve” – Mario Rigoni Stern






In questo importante momento storico sono molte le opere letterarie e cinematografiche che si riaffacciano: “La peste” di Camus è tornato in cima alle classifiche insieme ai “Promessi Sposi”, e tra i film “Contagion” ha goduto di nuova attenzione.

Ritengo sia perché le persone hanno bisogno di capire dove si trovano, a quale appuntamento con la Storia stanno partecipando. Comprendere la realtà e se stessi è ancora una volta la motivazione che si nasconde dietro i movimenti del leggere e del guardare, ciò che sottende il prepararsi all’immersione nella lettura e nella visione di un film.

Voglio allora proporre un altro libro che può essere d’aiuto nelle nostre giornate trascorse nella solitudine, e che solo apparentemente si allontana dall’esperienza umana che stiamo vivendo.

Si chiama “Il sergente nella neve” di Mario Rigoni Stern, un libro sicuramente molto conosciuto tra chi si è dedicato allo studio dell’esperienza umana della seconda guerra mondiale. Un romanzo breve, un resoconto più che altro, che narra le vicende di un uomo, di una compagnia, di un battaglione, di un reggimento, alle prese con la drammatica ritirata russa. Una ritirata forse peggiore di Caporetto che, insieme a questa, ha lasciato un segno indelebile nella nostra cultura storica e dunque nella nostra identità. Segno che va probabilmente raccolto, anche sessantasette anni dopo la sua pubblicazione. Segno che va raccolto per essere rispolverato, per permetterci di scendere nei meandri dell’oscurità umana descritti in una maniera così naturale da apparire a tratti leggeri.

La grande lezione di questo racconto di guerra è però un’altra: non tanto la descrizione della crudeltà umana, quanto la raffigurazione della virtù della perseveranza.

L’esperienza della guerra è qui affrontata nel significato di un’esperienza di resistenza mentale che via via regredisce verso una resistenza solo corporea, istintuale, animalesca, perfettamente descritta dall’autore in frasi semplici ma potenti “(…) Ma io, ormai, non pensavo più a niente; neanche alla baita. Ero arido come un sasso e come un sasso venivo rotolato dal torrente (…)”.




L’abbandono del caposaldo da parte dell’armata italiana, in direzione dello sfondamento della sacca formata dai russi che molti soldati ha intrappolato nella steppa ghiacciata, mostra molto bene la regressione di un essere umano già di per sé involuto nel contesto della guerra. E con il passare del tempo, con il macinare dei chilometri, il protagonista si abbrutisce sempre più, al punto da divenire un semplice corpo che cammina.



Sebbene a prima vista possa sembrare una terribile sconfitta per l’uomo, essa è invece una grande lezione: quando le difficoltà appaiono insormontabili, quando la realtà sembra ormai chiudere l’orizzonte della speranza, l’unica cosa da fare rimane andare avanti “un passo dietro l’altro, un passo dietro l’altro, un passo dietro l’altro”. In attesa di giungere, anche se per un breve momento, a una qualche destinazione, a un’isba, a un punto di ritrovo. Per poi ripartire. E camminare. Perché, come l’autore suggerisce, sembriamo fatti proprio per questo.

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