Innovazione e scontro sociale: il futuro è oggi
dì @GuidaLor
Rendere partecipe la società civile, riaccendere la passione politica, unire le migliori menti, sconfiggere il semplicismo delle risposte populiste attraverso competenza e innovazione.
Agevolata dal lockdown, riflessione forzata della clausura, negli ultimi tempi abbiamo assistito a una fioritura di iniziative: giornali, associazioni, partiti di vario genere.
Tutti uniti nel celebrare il complesso e l’innovazione “sopra boschi di braccia tese”, all’interno di un Paese ancora retrogrado, nel quale è sempre stato difficile dialogare ponendosi dietro l’autorevolezza della cattedra, per una comunicazione che ha avuto maggiore successo se appollaiata sul balcone o immersa nel frastuono della piazza.
Lodevoli negli intenti, dirigenti politici e intelligentia varia non stanno però facendo il conto con una società sempre più frammentata che contempla il fortino, Alamo del privilegio, e rifiuta il biglietti per la navicella verso il futuro, luogo del “saremo” incerto per definizione.
Relegati nella solitudine delle loro particolarità, i cittadini italiani chiedono ancora risposte al problematico oggi, che del “domani non v’è (mai stata) certezza”.
Lo statale, il libero professionista, il dipendente soggetto a 900 tipi di contratti diversi, l’imprenditore, il banchiere e il bancario, il pensionato e il disoccupato: ogni realtà politica o politicizzante ha il suo punto di riferimento e il corrispettivo avversario che l’annulla.
Riguardo l’innovazione, tema che queste numerose, nuove realtà hanno scelto come loro ragion d’essere, esistono due piani:
- il primo riguarda i processi produttivi e il nuovo rapporto con il consumatore;
- il secondo investe la disparità fra lavoratori con i vantaggi di quello “agile”, disponibile, ad oggi, solo per alcune figure professionali.
Sul primo punto, l’impossibilità di fermare un processo globale in piena accelerazione ci costringe a guardare il bicchiere mezzo pieno, nelle favolose scoperte tecnologiche quotidiane, provenienti dai vari settori: dalla medicina all’industria, dall’intrattenimento all’educazione scolastica.
Ma il fiume dell’innovazione che promette di travolgerci con mille benefici, come viene avvertito da Gino il fornaio o dalla commessa Luisa?
Si cerca di vendere il futuro sperando che la massa accolga favorevolmente il cambiamento (necessario, sia chiaro), anche se quanto registrato da Gino e Luisa in questi anni è la sistematica sostituzione delle risorse umane con la scusa della digitalizzazione o dell’automazione.
Agli occhi delle classi meno agiate e scolarizzate, l’automazione è sempre stata avvertita, almeno in un primo momento, come sinonimo di disoccupazione.
Dimostrare che ciò non sia vero è uno degli obiettivi più difficili da realizzare.
Anche perché i benefici sul piano occupazionale di una radicata innovazione nel sistema, non danno alcuna certezza ai lavoratori generici rispetto al futuro più prossimo. E questi votano, eccome se votano e fanno anche opinione.
In merito al secondo punto possiamo appoggiarci sulla colonna della storia e affermare senza imbarazzi che l‘invidia sociale, ovvero il sentimento che permea la società delle diseguaglianze e delle iniquità, è il freno di ogni evoluzione, sviluppo economico, crescita e pace sociale.
Il suo superamento non può essere operato solo attraverso la miglioria della condizione dei primi, intenti in un pioneristico apripista con la promessa del “poi vi faremo sapere”.
Siamo come un treno: se la locomotiva spinge i vagoni seguono ma le rotaie vanno registrate in modo omogeneo o il deragliamento è scontato.
Una riflessione riguardo tale, difficile trasformazione, può prendere spunto dal fenomeno dello smart working, o meglio home working, o meglio remote working.
Tema nel quale la difficoltà di un linguaggio concordato già crea di per se confusione propedeutica alla diffidenza generale.
Costruire il futuro auspicando vantaggi per tutti, attraverso il refrain del “prima o poi tocca anche a voi”, genera uno strappo insanabile, soprattutto se l’esclusività dell’offerta è indirizzato verso chi è compreso nella fascia di reddito più elevata, ovvero persone coinvolte nella modernità delle grandi aziende e nella sicurezza del posto statale, le stesse che escono con le ossa un pò meno rotte dalla crisi nazionale, sempre prossima nei numeri ma stringente nell’attualità.
La modalità di compensazione fra le diverse classi di lavoratori deve essere allora concreta, a partire dall’aumento dei salari per chi non può usufruire del lavoro agile e contemplare un’assistenza costruttiva in caso di perdita del lavoro, anche, ma non solo, per le novità verso le quali viene chiesto di andare incontro a braccia aperte.
Nel caso ciò non avvenga, a chi si rivolgerà il cittadino frustrato dalla miseria della sua condizione presente mentre il vicino sguazza nel futuro? Al Professore di Harvard o a chi agita il pugno?
Il “Quarto Stato” di Giuseppe Pellizza, opera simbolica del Novecento, ci viene ancora oggi in aiuto, con la rappresentazione di una comunità capace di viaggiare verso il futuro solo se unita da stati e obiettivi comuni.
In questo senso, l’innovazione tanto nei processi produttivi, quanto nelle condizioni degli occupati, può trovare la strada aperta solo attraverso una corposa riforma fiscale, del lavoro e del welfare, ridisegnando il reddito di cittadinanza.
Un piano di ampio respiro che compensi quanti non abbiano ancora accesso ad alcuni processi ritenuti imprescindibili e che con la loro prossima implementazione rischiano di causare ulteriore disoccupazione.
E’ necessario istituire un programma capace di sostenere la ripresa dei salari, per tabelle della soglia di povertà entro le quali insistono sempre più occupati.
L’innovazione deve portare un plus valore sociale: il prezzo dell’immobilismo o del suo distorto utilizzo nel sistema rischia di trasformarsi in guerra civile, fomentata da un sentimento di odio che già serpeggia da qualche anno e fino ad oggi, per fortuna, ha trovato sfogo solo in un Movimento dimostratosi fallimentare.
Gino il fornaio prima di sposare il futuro vuole sapere chi è il padre dell’innovazione e osserva la politica piegarsi al potere del mercato ormai da tre decenni.
E allora torniamo alla diatriba sul remote working: le aziende che la applicano si basano sul rapporto costo/benefici e sul tasso di produttività ma non hanno nessun obbligo di rispondere alla domanda sociale, prerogativa della politica.
La risposta a questo timore rappresenta il vero punto debole per gli sbandieratori dell’innovazione tout court, che trovano nel naturale ricollocamento di Gino il fornaio e Luisa la commessa, la soluzione a tutti i mali.
Se innovare è necessario, pretendere da Gino santa pazienza e fiducia nel domani non ha nulla di innovativo.
Sulla strada del progresso ci sono il tempo e la programmazione, elementi imprescindibili per ogni trasformazione sociale ed economica.
Ad oggi, il sentimento più comune quando si parla di innovazione è ancora la moderata diffidenza. Troppi processi vogliono eliminare ogni forma di intermediazione – con la beffa di non subire sostanziali cali nel costo al dettaglio – andando a vantaggio di pochi protagonisti coinvolti, tanto fra le aziende (es.Amazon) quanto fra i lavoratori (es.remote working): il tutto a discapito di chi non può far parte di una rivoluzione che, nonostante l’ottimismo, deve dare certezze rispetto al futuro più immediato.
A quanti si candidano a cambiare il Paese o renderlo illuminato, il consiglio è quello di guardare al presente con il realismo della necessità: per intercettare consenso bisogna immaginare il domani ma è sempre l’oggi che richiede di essere governato.
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