Intervista a Riccardo Cucchi: radio e calcio romantico




@GuidaLor

Riccardo Cucchi è la voce alla radio attraverso la quale provo a immaginare i movimenti dei calciatori in campo. Mio padre guida sull’autostrada: il silenzio viene spezzato da una punizione vincente di Alessandro Del Piero.
Riccardo Cucchi è la colonna sonora del ritorno in città dopo i weekend passati in campagna. Un tempo nel quale la pay tv era appannaggio dei bar, dove le giocate in campo si intuivano fra le colonne di fumo degli avventori e il calcio era seguito ancora gomito a gomito.
Riccardo Cucchi, una delle voci più familiari della radio sportiva italiana, da qualche anno si è mostrato al pubblico televisivo e social allargando la platea dei suoi ammiratori.

 

Un campione di Twitter, luogo virtuale dove riceve costanti endorsement dal pubblico più difficile con cui confrontarsi: il temibile tifoso da tastiera, l’appassionato di sport.
Ciò gli riesce per la pacatezza figlia di un mondo antico, nel quale il buon giornalista sportivo si limitava a tradurre il racconto di una passione senza schiamazzi, con l’imparzialità di un entusiasmo puro. Giunto in Rai nel 1979, Cucchi ha attraversato un’era dello sport nazionale da testimone privilegiato, facendo del connubio fra ritmo e competenza il tratto distintivo delle sue radiocronache.

 




Fra i più giovani c’è uno slogan che recita “No al calcio moderno”: quanto è cambiato il mondo pallonaro da quel 1979, anno del suo esordio in Rai?

 

E’ cambiato molto. Direi moltissimo. Rischio di essere considerato di parte se dico che la responsabilità più grande – nel bene e nel male – è della televisione.
Non dimentichiamo che il calcio, fino ai primi anni 90, era fondamentalmente un prodotto radiofonico e da stadio. L’avvento delle piattaforme TV a pagamento ha prodotto una vera rivoluzione, sia di natura economica che di natura narrativa.
La pioggia di milioni ha trasformato calciatori, che una volta potevi incontrare in ogni momento, in vere e proprie star con un seguito di manager e di responsabili della comunicazione che ce li hanno resi distanti e spesso addirittura non raggiungibili. Si è creata una barriera tra giornalisti e calciatori. Almeno con quelli più popolari e più ricchi. E sono nate le interviste a pagamento, quelle regolamentate dal commercio dei diritti tv.
Ma è cambiata anche la narrazione del calcio.
La partita, il gioco, contano sempre meno. In primo piano ci sono soprattutto gli episodi: i rigori concessi o non concessi, i falli, addirittura le punizioni. Le 24 telecamere e le decine di replay hanno concesso al pubblico, da casa, di radiografare ogni intervento, e di condannare o assolvere un arbitro con veri e propri processi sommari da salotto.
Allo stadio il pubblico aveva lo stesso tempo concesso all’arbitro per capire se il fallo fosse da rigore o meno. Poco. E una posizione spesso peggiore. Valeva anche  per i radiocronisti che, tra l’altro, operavano senza monitor.
Oggi il vero protagonista, credo suo malgrado, è diventato l’arbitro. Al punto che hanno dovuto dare anche a lui l’inevitabile monitor. Ma dobbiamo anche riconoscere che la tv ha concesso a tutti di vedere più calcio. Questo è indubitabile.

 

Lo stadio è stato il suo ufficio. Nel corso dei decenni il pubblico si è trasformato o il tifoso è rimasto lo stesso?

 

Anche il pubblico è cambiato. La passione è rimasta la stessa.
E’ quella che ricordo anche io quando da ragazzino andavo a vedere il derby di Roma all’Olimpico e i tifosi della Lazio e della Roma erano mescolati in ogni settore.
Le bandiere giallorosse e biancocelesti sventolavano una accanto all’altra. Per la propria squadra si nutre anche oggi un’ amore irrazionale, come del resto sono irrazionali tutti i grandi amori.
Ma c’è meno ingenuità, meno spontaneità, meno ironia.
Tutte virtù sostituite da violenza verbale, se non fisica, mancanza di rispetto, se non razzismo. Per fortuna chi si macchia di queste nefandezze, rappresenta sempre una minoranza rispetto alla grande massa del pubblico da stadio. Ma fa più rumore e più danni. Il calcio è un fenomeno radicato nella cultura popolare.
Ma è anche specchio della società, una specie di carta assorbente di ciò che avviene fuori dagli spalti. Se ci sono razzisti in curva è perché sono presenti anche fuori dalla curva,

 



 

L’operaio con il panino forse non frequenta più la curva ma il razzista sì. E’ giusto parlare dei fenomeni di discriminazione registrati annualmente fra i campi d’Europa?

 

E’ giustissimo. Ogni tentativo di derubricare la discriminazione da stadio a goliardia è un danno per il calcio. Che rimane uno sport e che dunque basa la sua stessa esistenza sulla difesa di valori, il primo dei quali è la lealtà. E subito dopo arrivano rispetto e inclusione. Tutto il contrario della discriminazione.
Vorrei rivedere l’operaio con il panino allo stadio. Le radici popolari di questo sport sono la sua vera assicurazione sulla vita. Ma i costi sono lievitati. Troppo.
E c’è il rischio che una fetta della popolazione, quella più debole economicamente, venga espropriata del suo “diritto” al calcio. Davanti alla tv e allo stadio.

 

Non è “fisiologica” una quota di deficienti (dal latino deficiens-entis, part. Pres. di deficere <mancare dì>)?

 

Non credo. E’ importante promuovere processi culturali.
Ciò di cui davvero si sente la mancanza in questo momento storico è una cultura diffusa. E mi riferisco anche alla cultura sportiva. Dobbiamo recuperare terreno. In fretta

 



 

Fra i suoi post su twitter non si registra un giro a vuoto, una polemica che crei scalpore.  La platea degli utenti la adora.

L’onorabilità costruita sul corretto modo di esprimere il proprio pensiero è regola assoluta per ogni giornalista sportivo?

 

Senza ombra di dubbio. Etica.
Sa chi disse ” il giornalista è un testimone della realtà” ? Enzo Biagi. E’ la più bella definizione del nostro mestiere. Non si smette di essere giornalisti quando il ciclo lavorativo si conclude.
Giornalisti lo si è per sempre, anche quando si scrive su Twitter.
Ormai non faccio più il cronista, ma ho chiaro in mente che chi legge deve potersi fidare di me. Può legittimamente non essere d’accordo, ovvio. Ma non deve mai essere attraversato dal dubbio che io voglia ingannarlo. Anche quando si esprimono opinioni si deve essere obiettivi. Per la verità, si dovrebbe essere obiettivi anche quando si legge. L’obiettività non è una strada a senso unico. L’obiettività è anche frutto di una sana relazione tra chi scrive e chi legge. Twitter è una grande opportunità di dialogo. Non bruciamola.

 

Perché molti suoi colleghi non ci riescono?

Non so perché non ci riescano. Non siamo tutti uguali, ma spero non sia per la scelta di schierarsi. Un giornalista non può, non  deve schierarsi.
Deve interrogare la realtà. E soprattutto se stesso. E se riesce a far interrogare anche gli ascoltatori, i lettori e i telespettatori può andare a dormire tranquillo.

 

L’intervista capitale si conclude sempre con un gioco. Ha 5 minuti di “pieni poteri”: come li utilizza?

Non amo il concetto di ” pieni poteri”. Il potere è democratico se bilanciato da altri poteri. Non vorrei mai avere dunque pieni poteri, nemmeno per gioco.
Posso trasformare la sua domanda, però: “Cosa desidererebbe di più in questo momento?” Che gli uomini fossero in grado di dominare ogni sentimento di odio.

 

 







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