Joker
Originale o copiato? Struggente nelle sue citazioni o mangiato da esse? Lento o veloce? Joker e Batman sono stati fratelli? Sì. No, affatto. Anzi sì, sono i gemelli disegnati sulle due facce della medaglia.
Joker è un ritratto, il ritratto di un villain fumettistico dipinto per la prima volta con colori umani, troppo umani. A venire rappresentato sulla pellicola è il progressivo aumento di un senso che a un certo punto si spezza e porta dritti dentro al caos, nel non senso della psicopatologia grave, che esclude la vita per celebrare nient’altro che la morte. Non è un caso che Arthur si metta a danzare dopo ciascun omicidio, dal primo all’ultimo.
Non è un caso che solo la sottrazione della vita all’altro aggiunga qualcosa alla sua, nè che la distruzione del movimento vitale altrui, per quanto gravido di contraddizioni, di violenza, di cattiveria, si trasferisca sulla danza psicotica del protagonista, e che anzi ne vada a far parte, come inglobato da essa.
E che ad un inizio così reale e crudo, rappresentato da un mondo che non riesce a vedere nulla dietro la maschera del clown, che proprio per questo lo violenta, momento dopo momento, dal furto del cartello a quella rincorsa così dolorosa e goffa, all’aggressione vera e propria, corrisponda un finale sfocato, con la scritta “The end” a certificare la fine dell’uomo e l’inizio della farsa, del mondo psicotico da cartone animato, da saga di Batman, da coniglio rosa assassino di Dylan Dog, che cammina per il reparto del carcere psichiatrico lasciando orme di sangue dietro di sè.
Un percorso drammatico e segnato sin dall’inizio, che permette a chi lo osserva di entrare a farne parte con tutte le sue contraddizioni, con quelle risate che suscitano divertimento e disperazione nel medesimo istante e che lasciano allo spettatore una strana commistione di colpa e angoscia causate dal non riuscire a sua volta a silenziare quella risata che davanti allo schermo fuoriesce a volte sotto forma di respiro, di ghigno, e che altre volte rimane rinchiusa nella mente, ma sempre presente e pesante, intatta. E allora la trasformazione di Arthur in Joker diventa una questione di giusto o sbagliato, di presa di posizione, di responsabilità. La compassione mossa da una risata che è solo il frutto di una tortura si trasforma in un giudizio e si incarna nel terribile dubbio del detective, che presta la voce allo spettatore: quell’irrefrenabile impulso a ridere è davvero un disturbo oppure è una di quelle cose di voi clown? Arthur lascia rispondere chi domanda: “Lei che dice?” per poi sbattere platealmente il muso sulla porta dell’ospedale. E lo spettatore ancora a ridere cercando di reprimersi, domandandosi “Io che dico?”.
La domanda alla fine del film si trasforma con la pellicola: di chi è la colpa? Chi ha creato Joker? Chi produce i mostri che ogni giorno girano per le Gotham del mondo, che uccidono poliziotti in un commissariato, che tagliano teste per strada con un machete, che fanno stragi nelle scuole? E la mente ripercorre il film, in ordine o a casaccio: l’abbandono di servizi sociali che ascoltano senza ascoltare, l’interruzione dei farmaci, l’inganno di un’autorità, quella di Thomas Wayne, che dalla sua poltrona definisce clown quegli stessi sofferenti mentali e sociali e soprattutto l’inganno di una madre che ha permesso tutto questo. Una società e una madre che non sono in grado di proteggere il loro figlio e di farlo sentire ascoltato, al sicuro, che lo mette in vetrina per mostrarlo al mondo nella sua ridicolezza, nella sua esistenza che non è altro se non una risata isterica e vuota. Nel momento in cui Arthur prende consapevolezza di tutte queste cose, il film assume la forma una caduta libera verso la follia e la brutalità senza senso del caos. La trasformazione di Arthur in Joker, dell’uomo nel villain del fumetto noir, è alla fine completa.