“La cura” – H. Hesse
Tante persone, i soggetti della cura, sanno che la cura di una malattia procede in questo modo: si regredisce, si sta male, a momenti si vuole mollare tutto. È vero, lo vivono tutti coloro che si sottopongono ad una cura, specialmente a quella dell’anima.
Ogni giorno è un giorno in cui si perpetua il circolare meccanismo di cadute e apparenti resurrezioni, di sconforti e incoraggiamento che si alternano, sempre con la sensazione che i primi si impongano sui secondi, senza rendersi conto invece che sta avvenendo il contrario, che senza che l’anima produca ideali di guarigione, si riesce a stare qualche secondo di più in piedi, un pezzettino alla volta sempre di più.
Già con “Siddharta”, Hesse aveva regalato speranza e un pizzico di fiducia in mezzo al dolore umano più puro. “La cura”, in un immaginario fil rouge che la collega al primo, sembra esserne la seconda parte, il pezzo mancante.
Anche alla fine di questo libro si può ascoltare in se stessi l’emergere di un senso di fiducia, seppur fragile e provvisorio, come la vita impone. Alla fine la paura da viscerale sensazione si fa immagine e poi fantasma, un fantasma che può rimanere spaventosissimo, ma che resta pur sempre un fantasma, dunque non reale. Sembra una cosa ovvia, ma non lo è.
Quante volte i piani della fantasia e della realtà si intersecano tra di loro al punto che l’una si confonde con l’altra, e quante volte l’essere umano ne ha bisogno! Ne ha bisogno però non più come aspirazione irrealizzabile che Hesse mette meravigliosamente in luce nelle ultime pagine, ma nell’idea utopica di far convivere l’uno nell’altro come opposti che si compenetrano.
Certamente tutto dipende dal fatto che fantasia e realtà comunichino costantemente, ma ciò che è importante è anche che lo facciano in modo congruo, rimanendo cioè separate. Separate ma comunicanti. È infine magnifica l’esegesi dell’insegnamento evangelico “ama il prossimo tuo come te stesso”.
È vero, e lo dice anche l’autore, si percepiscono con forza la fatica e i vari sforzi con cui si cerca l’impresa impossibile, la spiegazione e la chiarificazione del Tutto, la ricerca continua del vero non come miraggio, ma come obiettivo concreto che tuttavia finisce inevitabilmente per diventare miraggio. Spiegare la verità, e prima ancora cercarla, provare a raggiungerla, e infine soccombere all’assenza di una verità oggettiva perdendosi, mettendosi seduti ad aspettare e a riprendere le forze e il fiato prima di rimettersi in cammino.
Tutto questo è illustrato magnificamente dalle parole del poeta, che gioca per buona parte del libro con l’Al di là del principio di piacere Freudiano, investendo l’uomo dell’onere rappresentato dalla tensione tra unità e molteplicità, tra amore e odio, tra vita e morte, anelando a che queste componenti antitetiche riescano a sposarsi in vista di un solo fine, eterno e superiore: l’autenticità del sé ritrovato, in cui amore e odio si compenetrano e trovano finalmente un equilibrio.
Un compito che certamente, come l’autore ha sperimentato durante tutta la sua vita, si prospetta estremamente arduo.