La febbre del plasma.






dì Silvia D’Amico – Biologa con dottorato in Biologia Cellulare e Molecolare –

per I Fatti Capitali (Twitter @mumon89 – @ifatticapitali)

 

Nelle ultime settimane, tanto i media quanto i privati cittadini, hanno messo al centro della discussione il trattamento dei pazienti COVID-19 attraverso l’infusione di plasma iperimmune, o plasmaterapia.

Annunciata come soluzione rivoluzionaria e miracolosa, si tratta in realtà una metodica scientifica nota da molto tempo, messa a punto nel modo in cui la conosciamo negli anni ’80, ma risalente nelle sue prime applicazioni agli inizi del ‘900.

Ad oggi, la plasmaterapia è stata impiegata con successo nel trattamento di infezioni da Ebola, West-Nile Virus, MERS-Cov, SARS-CoV, ma anche nel trattamento di polmoniti intestiziali da Varicella in pazienti pediatrici immunodepressi.

Nulla di nuovo, quindi, ma una metodica già rodata che è stata messa in campo anche per questa pandemia, non appena le condizioni lo hanno reso possibile.

Nel caso dell’infezione da SARS-CoV2, l’impiego della plasmaterapia nei pazienti ricoverati sta dando risultati ottimi e, per valutarne in modo scientificamente accurato quanto sia reale la sua efficacia nel contesto epidemico, sono in corso diversi studi clinici.

Ma quanto c’è di legittimo nell’entusiasmo generale intorno a questo argomento? Soprattutto, ha veramente senso contrappore la plasmaterapia alla realizzazione di un vaccino efficace?

Per capirlo, è necessario chiarire alcuni punti.

 




 

Cos’è esattamente il plasma immune e come viene prodotto?

È un emocomponente, quindi una componente del sangue, che si ottiene attraverso la rimozione della parte corpuscolata, e quindi essenzialmente globuli rossi, globuli bianchi e piastrine.

Nel caso della terapia di malattie infettive per cui non è disponibile una cura, o in casi particolari di infezione in pazienti immunodepressi, il plasma di un paziente precedentemente guarito dalla malattia rappresenta da anni un trattamento salvavita, in quanto ricco di anticorpi.

Gli anticorpi sono molecole particolari, prodotte dai linfociti B, in grado di legarsi sulla superficie di un microrganismo patogeno o di una tossina fino a ricoprirla interamente e consentire all’organismo di riconoscerli come estranei ed eliminarli.

Quando il plasma di un paziente contiene una concentrazione di anticorpi, specifici per un determinato patogeno, superiore ad una data soglia, si definisce iperimmune. La raccolta di sangue ed emocomponenti in Italia avviene su base volontaria e questi prodotti non possono essere commercializzati, bensì solo ed esclusivamente ceduti da un’azienda sanitaria ad un’altra, una regola che vale anche per il plasma autoimmune.

È possibile ottenere il plasma mediante centrifugazione del sangue intero o direttamente durante la donazione, attraverso una procedura più complessa detta plasmaferesi. Quest’ultima, consente di separare sul momento il plasma dalle cellule del sangue, le quali vengono reinfuse nello stesso donatore.

Rispetto alla centrifugazione del sangue intero, la plasmaferesi ha almeno due vantaggi. Se il primo è l’ottenimento di un prodotto meno manipolato, il secondo è senza dubbio la possibilità di donare con maggiore frequenza. Se, infatti, è possibile donare il sangue intero una volta ogni 3-6 mesi, a seconda che il donatore sia uomo o donna, il tempo che intercorre tra due donazioni di plasma varia tra i 14 e i 30 giorni. Ciò nonostante, l’applicazione della plasmaterapia su larga scala presenta diverse limitazioni, vediamole insieme.

 



 

I punti critici.

 

  • Diventare un donatore di plasma iperimmune è più complesso di quel che si immagina. Innanzitutto, è necessario che il volontario presenti le caratteristiche adatte ad effettuare una donazione di sangue ed emocomponenti. Affinché il plasma possa essere impiegato in maniera utile nella terapia, poi, è fondamentale che il contenuto di anticorpi specifici per SARS-CoV2 superi un valore soglia. Un basso titolo anticorpale, infatti, renderebbe l’infusione di plasma inefficace. Inoltre, è necessario sottoporre il plasma a test che accertino la capacità degli anticorpi in esso contenuti di impedire al virus di infettare e propagarsi. Trovare un individuo con queste (e altre) caratteristiche non è cosa banale. Non sorprende che, come già riportato da diversi giornali in base all’esperienza di Mantova, solo il 30% dei potenziali donatori che hanno superato un’infezione da nuovo coronavirus sia effettivamente elegibile. Va da sé che la “domanda” di plasma autoimmune, in un mondo senza un vaccino e durante la fase acuta di un’epidemia, possa andare ben oltre “l’offerta” e che, quindi, non tutti possano beneficiarne.

 

  • Il plasma non nasce “pronto”. Una volta raccolto, deve essere lavorato e reso sicuro per il ricevente, subire una serie di test e procedure al termine delle quali non è comunque detto che risulti utilizzabile. A fronte di un costo apparente per paziente di 85 euro, c’è un costo sommerso a carico del Sistema Sanitario Nazionale non trascurabile. I costi accessori, in termini di personale, manutenzione dei macchinari e tempo, non sono irrisori.

 

  • La plasmaterapia non rappresenta un trattamento facilmente standardizzabile. Per quanto sia buona prassi tentare di conoscere, nel modo più preciso possibile, il contenuto di anticorpi di ciascuna sacca di plasma, esiste una grande variabilità in termini di concentrazione ed efficacia degli anticorpi tra donatore e donatore, tanto da rendere di fatto impossibile trattare tutti i pazienti allo stesso modo.
    Ciascun paziente riceve un quantitativo e, soprattutto, una tipologia di anticorpi differenti, con risultati anche molto diversi tra loro e solo parzialmente prevedibili. La difficoltà di standardizzazione non è una caratteristica desiderabile per una terapia da impiegare su larga scala.

 

  • Anche per l’impiego del plasma è necessario rispettare le condizioni di compatibilità che si applicano alle trasfusioni. Ad esempio, bisogna assicurarsi che il ricevente abbia un gruppo sanguigno compatibile con quello del donatore. Va da sé che ciò contribuisce a restringere ulteriormente il campo di applicabilità della terapia.

 

  • C’è, poi, un fattore che non ha ancora preso in considerazione nessuno, ma che la Società Italiana di Medicina Trasfusionale e Immunoematologia (SIMET) e la Società Italiana di Emaferesi e Manipolazione Cellulare (SIdEM) hanno messo nero su bianco all’interno di un loro “position paper”: la possibilità che l’impiego di immunoglobuline da donatore impedisca al paziente di sviluppare immunità. Si tratta di un rischio teorico, la cui valutazione è basata su alcuni studi su modello animale, ma comunque non trascurabile e che sarebbe necessario studiare più a fondo.

 



 

Foto https://pixabay.com/it/illustrations/sangue-cellule-red-medico-medicina-1813410/

2 pensieri riguardo “La febbre del plasma.

  • Maggio 19, 2020 in 10:41 am
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    Buongiorno, grazie dottoressa x la chiarezza e contenuto del suo post, anche x un comune mortale !!.conosciuta, da poco, ma vorrei continuare a seguirla, online, x chiara, competente, e brava

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    • Maggio 20, 2020 in 12:16 pm
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      Ciao Franco, puoi farlo seguendo “I Fatti Capiali” su facebook e twitter (@ifatticapitali) e la pagina della biologa Silvia D’Amico (twitter @mumon89). Ti segnaliamo un altro articolo, sempre a firma della dottoressa, presente sul sito e dal titolo: “La plastmaterapia e l’inutile confronto con il vaccino” (categoria pillole). Buona giornata

      Rispondi

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