“La Noia” di Alberto Moravia
dì A.G.
Pochi autori delineano in modo perfettamente asciutto tutto un intricato giro di pensieri, visioni, sensazioni e idee che nel protagonista de “La noia” si concentrano in una vera e propria weltanshauung.
Tra questi c’è Moravia, che racconta la storia di un pittore (che non dipingerà nemmeno un quadro nel corso della vicenda) di famiglia ricca da parte di madre, il quale vive i rapporti umani in modo scisso, laddove essi sono dominati o dalla maniacale ricerca di un oggetto sfuggente oppure, in alternativa, dalla noia.
E non solo i rapporti umani, ma tutta la realtà che lo circonda, materiale e immateriale, sembra essere incapace di affrancarsi dalla noia, non elemento di assenza (di divertimento, come tutti siamo portati a credere) bensì come modalità di distacco dalle cose della vita.
Ed è proprio la noia la vera protagonista del libro, come il titolo stesso suggerisce: la dea dal gusto marcatamente nichilistico che il nostro Dino subisce in modo totalmente passivo, senza condannarla, ma anzi riconoscendola come padrona indiscussa della sua vita. Essa rimane per il protagonista un caldo giaciglio dove ripararsi dalla vita stessa, nell’attesa tutta ideale che qualcosa la sposti per far spazio a qualcos’altro.
Così pensa Dino: “Dunque la noia, oltre alla incapacità di uscire da me stesso, è la consapevolezza teorica che potrei forse uscirne, grazie a non so quale miracolo”.
Il miracolo arriva, e porta il nome di Cecilia. Oggetto incandescente, sempre sfuggevole, costantemente al di là e al di qua di una vacua sensazione di vuoto che le sue poche parole lasciano nel protagonista e certamente anche nel lettore.
Cecilia è una ragazzina di 17 anni (Dino ne ha 35) e ha tutta l’aria, sin dall’inizio, di essere persona controversa, come un cartonato tridimensionale cavo, all’interno del quale non vi è nulla, solo l’acutissima capacità di rovinare chi la incontra: vista dalla prospettiva del pittore, una trappola per topi.
Ed è questo il provvisorio destino del protagonista, il cui incontro con Cecilia genera una sorta di implosione: finire in una trappola per topi.
Quel senso di noia che permea la prima parte del romanzo si dissolve in un nonnulla, lasciando spazio al tentativo di possedere, letteralmente, Cecilia e, altrettanto letteralmente, la sua vita. La noia perde così il ruolo di guida per Dino, ed egli si ritrova spaesato.
L’amore è dolore, sofferenza, la vita si apre, e per chi ha vissuto nella noia, il cambiamento repentino può nuocere gravemente alla salute.
Così accade per Dino, che si ritrova in un labirinto fatto di dipendenza emotiva, di bisogno costantemente frustrato di essere amato, riconosciuto.
Sullo sfondo la relazione con la ricca madre, che vive in una villa sulla via Appia Antica della Roma degli anni ’50. Una relazione che, proprio come quella ricercata in Cecilia, preme per la simbiosi, per la dipendenza anziché per l’autonomia, per il ‘come voglio che tu sia’.
Cecilia è diversa, fa del poliamore una possibilità, ama per amare, secondo possibilità e capacità dell’altro. Dino vuole possederla.
Dove può portare una relazione di questo tipo? Non vi resta che leggere il romanzo.
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