La vita come un romanzo russo – Emmanuel Carrère
Osservo la libreria alla ricerca di una nuova sfida, e grazie a un caro amico che mi ha consigliato un libro la trovo: “La vita come un romanzo russo” di Emmanuel Carrere. Oggi si chiama semplicemente “Un romanzo russo”, ma al termine della lettura mi dico che era più azzeccato il primo titolo.
Un libro che ha come temi il patimento dell’animo, il dolore, l’amore e la morte non può che avere come titolo “Un romanzo russo”. Quando la storia narrata rappresenta le vicende dell’autore, i suoi fantasmi familiari, il suo inconscio, allora è giusto che sia il titolo originale a campeggiare in copertina.
È il mio stesso inconscio a suggerirmi, tramite una continua distorsione fatta in questi giorni di lettura, che manca ancora un pezzo al titolo: per tutto questo tempo l’ho sempre chiamato “La mia vita come un romanzo russo”.
E come un romanzo russo, i pensieri e le emozioni di Carrere attraverso i tre anni di vita che racconta, hanno al centro, tra sofferenze di diverso tipo, quelle dell’amore, di cui l’autore ci racconta una variante in cui molti, probabilmente, si saranno riconosciuti.
Perché cosa rappresenta ciascun libro che abbiamo letto, se non il tentativo di illuminare una delle possibili e infinite varianti dell’amore? Cosa abbiamo cercato da sempre, se non la descrizione di quella variante che abbiamo conosciuto noi, e che noi mettiamo in pratica nella nostra vita? Cosa ricerchiamo se non il riempimento di quella mancanza che sentiamo, quel pezzo di anima di cui non disponiamo e che, attraverso la lettura, potremmo imparare a ri-conoscere, dunque a gestire?
Sempre alla ricerca di quella “letteratura performativa” che Carrere esalta nel racconto erotico del capitolo tre scritto per la compagna Sophie, quando spiega che un certo tipo di linguaggio è capace di plasmare la realtà seduta stante, come quando affermiamo: “ti dichiaro guerra”, e la guerra è bell’e dichiarata.
Carrere fa un’altra operazione in questo senso: è intenzionato a liberare se stesso e la madre dal fantasma di un nonno che con l’andare degli anni ha sviluppato probabilmente un disturbo mentale grave, fino a scomparire nel nulla, aiutato dalla Storia, nel lontano 1944. Intende farlo attraverso la rievocazione di una storia simile, avvenuta in un tempo altrettanto lontano, in un Paese distante come la Russia.
Indaga, esplora, e crede che la Verità salverà se stesso e la madre, questa diade che condivide un segreto, un veleno tossico per la mente di entrambi, che “l’inconscio di tre generazioni” fa scivolare da un elemento all’altro della triade come in un sistema idraulico.
Carrere compie anche questa operazione, dunque, con il mito della letteratura performativa: più rievocherò il fantasma, più questo prenderà consistenza, potrò vederlo, e allora sarò libero. E lo sarà anche mia madre.
Questa operazione si rivela per la verità di un egoismo e di una violenza assoluti, di cui il protagonista-scrittore è perfettamente consapevole, come certifica in pieno la lettera alla madre delle ultime pagine: Carrere prova a scrivere la loro storia ad insaputa di una donna messa dinanzi al fatto compiuto di un libro che finisce per celebrare l’interiorità di un figlio il cui vissuto è il fallimento, l’orrore per se stesso, dove sul piatto viene posta l’intimità della straziante storia d’amore con una donna, di diversi viaggi in un paesino sconosciuto della Russia dei primi anni duemila dove niente e tutto si succedono, senza sosta, da molto tempo, in un’alternanza tra riempimento e svuotamento di significato che ricalca l’interiorità dell’autore nei suoi sbalzi tra pieno e vuoto.
Non sappiamo, o almeno io non lo so, se questa ri-elaborazione del fantasma-non fantasma come lo definirebbe lo psicoanalista Racamier, ha colto nel segno. Ciò che ci rimane come lettori di un romanzo sanguinante è la possibilità di accendere un lumino nel buio del nostro inconscio, fatto anch’esso, come quello di Carrere, di violenza e oscurità, ma anche di amore e creatività.
Perché in fondo cosa chiediamo noi alla letteratura se non questo, che si possa fare luce sulle questioni più profonde riconoscendole in qualcun altro: uno scrittore, un personaggio. Di cosa abbiamo bisogno se non di leggere nell’altro la nostra stessa scrittura, il nostro racconto e, tramite questo, conoscere il mondo?
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