L’ascensore sociale dell’utopia. Se non è tutta colpa della scuola




 

Ha fatto recentemente scalpore lo studio Inapp sul rapporto fra laureati e titolo di studio delle famiglie di origine.
Il report, pubblicato integralmente sulla rivista Sinappsi a partire dal 4 marzo, registra che:
  • solo il 12% dei laureati proviene da famiglie nelle quali i genitori hanno ottenuto la licenza media;
  • il 6% da padre e madre senza alcun titolo di studio;
  • il 48% da genitori in possesso di un diploma.

 

Numeri confermati dai recenti studi Ocse, per i quali si apre l’ennesima voragine nella già profonda crepa sociale del Paese e nel mismatch fra domanda e offerta interno al mercato del lavoro.
Se l’ascensore sociale è rimasto fermo, il Presidente Inapp, Sebastiano Fadda, rintraccia nei motivi economici, culturali e nell’organizzazione scolastica il nucleo dei problemi sui quali intervenire.
Prima di farlo, però, a mio parere è necessario soffermarsi attorno al concetto “dell’ascensore”, utilizzato contro ogni logica per spiegare il processo di crescita di una società.

 

L’ASCENSORE SOCIALE DELL’UTOPIA

 

“L’ascensore sociale” è comunemente inteso come la migliorata capacità di spesa di una generazione rispetto alla precedente -ovvero al cambiamento di stato sociale (Treccani)- laddove le condizioni economiche di un Paese capitalista dovrebbero, per narrazione, tendere a un miglioramento costante -economico e culturale- generato dal PIL in perenne crescita, assicurando benessere diffuso sulla più larga scala delle possibilità offerte.
Un’idea di sviluppo e progresso alla quale, nel nostro caso, risponde la stagnazione economica ventennale maturata per scelte politiche e industriali sbagliate, a motivo della concentrazione delle risorse in poche mani, dell’iniquità salariale rispetto al costo della vita e della quantità di bisogni indotti dalla società del mercato, in contrasto con un reddito medio che retrocede e fra centro e sud non supera i 15.00 euro annui.
In sostanza, l’ascensore che dovrebbe salire grazie ai cavi di una sana preparazione accademica, è fermo perché il traino risulta usurato da un sistema che non funziona.
C’è poi una domanda maliziosa.
Ogni ascensore ha una capienza limitata: perché quello del capitale dovrebbe portare tutti ai piani alti se si muove, in scala globale, proprio sullo sfruttamento del portiere e dell’ascensorista?
Vedere per credere: i braccianti nelle Puglie, i minatori di cobalto in Africa, la recente denuncia per lavoro minorile verso alcune multinazionali del food.
Tant’è, continuiamo così, facciamoci del male, sorvoliamo e andiamo avanti.

LA RISPOSTA DELLA POLITICA: RIVOLUZIONARE LA SCUOLA

 

Nell’indifferenza dei partiti rispetto ai temi cruciali per lo sviluppo del Paese, i pochi soggetti ancora interessati a parlare di giovani e futuro rintracciano ogni soluzione in una condivisibile riorganizzazione scolastica: programmi attualizzati, personale aggiornato, rinnovata capacità di sostegno agli studenti meritevoli attraverso borse di studio e corsie preferenziali.
Tutto semplice nella teoria, almeno fin quando non si incontra la disponibilità del comparto scuola e dei sindacati rispetto a ogni cambiamento, tralasciando la concreta possibilità di aggiornare in poco tempo un sistema complesso, nel quale l’età media del personale si è abbassata solo di recente, attestandosi sui 49 anni.

 

OLTRE I BANCHI: LA NUOVA SOCIETA’ E IL RDC PER GLI STUDENTI

 

L’ennesima, desolante incapacità di analisi complessa da parte della politica, nasconde dietro alla lavagna tre problemi a monte rispetto allo scarso numero di laureati provenienti da famiglie con livello di istruzione basso:
  • il contesto sociale ed economico;
  • la prospettiva di guadagno di un laureato;
  • la necessità di costruire rapidi percorsi formativi, paralleli al titolo accademico.
Un /a giovane proveniente da famiglia con una bassa scolarizzazione e livello salariale corrispondente, qualora intendesse iscriversi all’Università dovrà fare affidamento per anni sul proprio nucleo, all’interno di un sistema che non gli garantisce sostegno economico e indipendenza abitativa.
A meno che non si voglia credere nei miracoli dei lavoretti riuniti nella gig economy, recentemente condannata con il caso riders.
In questo senso, un reddito di studio per gli allievi, a fronte di obiettivi concordati, non sarebbe davvero rivoluzionario, equo, moderno, di stimolo e sostegno per i figli delle classi meno agiate e sostitutivo di quelle borse di studio dal sapore vagamente assolutorio per un sistema incapace di essere trainante e inclusivo?
Utopie da webzine, in uno dei paesi europei dove si è ridotta in maniera più consistente la spesa per istruzione e università.

 

 

C’è poi un aspetto sociale non meno importante: l’itinerario accademico dei giovani che si scontra con il complesso della società dei consumi nella quale sono imbevuti dalla nascita.
Generazioni cresciute seguendo il modello del calciatore o dello youtuber milionario: la rivalsa sociale e il sacrificio come valori sostituiti in gran parte dalla logica pubblicitaria dell’impossible is nothing e non dal faticoso possibile di una realtà implacabile nelle sue sentenze.
Al complesso delle evoluzioni totalmente ignorate, risponde poi una prospettiva economica poco allettante: un laureato guadagna solo il 40% in più rispetto alla media di base, già indecorosa se si pensa che il 12% degli occupati italiani è vicino alla soglia di povertà.

 

Con la richiesta di competenze sempre più specifiche, in molti campi risulta ancora più utile intraprendere dottorati ricerca, ovvero ulteriori anni di impegno ai quali, anche in questo caso, al termine del percorso di studi spesso non corrispondono offerte di lavoro allettanti. Almeno in Italia.
E da quì il famoso processo dei “cervelli in fuga”, altra prospettiva da mettere in conto per i nostri talenti economicamente sfavoriti.

 

 

A completare il quadro di una situazione complessa c’è l’eredità culturale del “Professore e dell’Umanista”, per studenti che prediligono corsi di laurea ad oggi poco richiesti dalle aziende:

 

 

RIPARTIRE CON JUDICIO

“Quel che è fatto è fatto”.
Almeno tre generazioni dal 1980 ad oggi sono state bruciate sull’altare di una miopia culturale, economica e politica affascinata dal lieto fine.
Di questo bisogna prendere atto senza puntare il dito verso qualcuno ma piuttosto cercando nuovi orizzonti.
Lavorare sullo strappo fra preparazione e richieste delle aziende significa sicuramente rivoluzionare il mondo della scuola e potenziare gli ITIS, come annunciato dal Premier Mario Draghi, ma vuol dire anche strutturare un diverso approccio allo studio, considerandolo come un lavoro retribuito se corrisposto da risultati soddisfacenti e producenti per lo Stato, al quale lo studente verserà le future tasse del reddito.
In ultima analisi, per quanti siano già troppo in là con gli anni e in vista dell’ondata di licenziamenti post covid, la necessità è quella di un serio piano di corsi intensivi predisposti dallo Stato e dalle regioni, in concerto con le esigenze del mondo del lavoro.
Percorsi rapidi e formativi attraverso i quali le aziende possano attingere a piene mani per le loro necessità, assumendo personale con l’obbligo di prospettive chiare e retribuzioni decorose, attraverso una rimodulazione dei contratti di lavoro per abbattere quella flessibilità trasformata in schiavismo a tutti gli effetti.
Se l’ascensore sociale è fermo sarà difficile farlo ripartire senza l’elettricità del lavoro. Di certo  le cose da fare non mancano: su competenze e disponibilità di tempo qualche dubbio invece viene anche al più solido ottimista.
(Un grazie speciale a Luca Gualtieri per il sacco effettuato dalla sua utile e interessante pagina twitter)



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