Le regole della casa del sidro (1999)
“Le regole della casa del sidro” è uno di quei film che conferma un particolare fenomeno psicologico: il pianto a lieto fine. Secondo tale teoria, lo spettatore piangerebbe solamente nel momento in cui tutte le vicende si sono risolte. Dopo il dramma, dopo la crisi, dopo la rottura. Semplicemente dopo, quando Homer torna al suo orfanotrofio forte e apparentemente ancora inconsapevole del suo viaggio da casa al mondo e ritorno. Si piange lì, quando tutti corrono ad abbracciarlo, quando i piccoli orfani fanno festa al nuovo medico.
Eppure nel corso del film di motivi per piangere ce ne sarebbero eccome: vite rovinate, spezzate, mai nate, incesti, tradimenti. E quando per Homer arriva la speranza della libertà, lo spettatore fa fatica a schierarsi con lui, con la sua voglia di scoprire il mondo, con la sua curiosità. È più facile cercare di comprendere il dottor Larch, forse vero protagonista di questo magnifico film.
Un uomo alle prese con il figlio adottivo prediletto, che un giorno come il Siddharta di Hesse decide di partire contro il volere del padre.
Ma a Homer non tremano le gambe, ed egli non si trova a rimanere in piedi per una notte, con i pugni stretti a impavida e decisa protezione del suo desiderio. Homer semplicemente se ne va, e forse è questo che lo spettatore fa fatica a perdonargli. Semplicemente lascia il padre. Per quel che possiamo osservare, il dottor Larch è un particolare tipo di uomo: cinico, spaventato, ferito, per molti versi disperato (leggi “senza speranza”). Eppure saggio, e forse per questo amabile. Un uomo che non ha dimenticato il gioco e la finzione nel loro significato più alto, ovvero come capacità di lasciare alla tremenda realtà del mondo la possibilità del “come se”. Come se Fuzzy non fosse morto, ma adottato; come se gli ospiti dell’orfanotrofio fossero i re del New England, come se…
Il dottor Larch non smette mai di amare il figlio che se ne va, e che a differenza della parabola del Figliol Prodigo torna solo postumo alla morte del padre.
Non smette di giocare al “come se”, producendo lauree false che possano far tornare a casa Homer, inviando nella tenuta dove il ragazzo lavora come bracciante una borsa da medico, il simbolo di ciò che il ragazzo, nel più profondo desiderio del padre, è. Non si arrende, al punto che il figlio adottivo lo rimprovera di giocare “a Dio”. Wilbur Larch non è Dio, e neanche solo un padre. Il dottor Larch è un insegnante, un testimone delle potenzialità di Homer, che prova fino all’ultimo a far fruttare.
Il ritorno di Homer al termine del film è il suo successo, la prova della trasformazione di un adolescente in un adulto consapevole del suo ruolo nel mondo. E del destino che tocca a tutti noi quando emozionato pronuncia per la prima volta ai piccoli ospiti dell’orfanotrofio la formula che fu del padre: “Buonanotte principi del Main, re della Nuova Inghilterra”.
Per contatti e/o contributi : postmaster@ifatticapitali.it