L’uomo e la bestia: Cuore di Cane, di Michail Bulgakov
“Cosa sarebbe peggio? Vivere da mostro o morire da uomo per bene?”
Questa domanda chiude il film capolavoro di Martin Scorsese “Shutter Island”, prima che sul personaggio interpretato da Leonardo Di Caprio venga eseguita la lobotomia. Ma questa è anche la domanda perfetta che avrebbe potuto porre, al termine di “Cuore di cane”, Michail Bulgakov: “Che cos’è peggio?”
“Cuore di cane” può essere letto su molteplici livelli, e ciò fa di un libro un grande libro, di un’opera d’arte un capolavoro. Esso può stimolare, ad esempio, una riflessione sull’eugenetica, sulla spinta della scienza ad andare oltre qualsiasi limite, compreso quello dell’etica, soprattutto quello dell’etica, seguendo fino all’estremo la via dell’onnipotenza. Una seconda prospettiva sul racconto potrebbe raccordarsi al tema della bestialità che caratterizza l’uomo, sia esso impiantato in un cane, sia esso puramente umano. Oppure, da un punto di vista psico-evoluzionistico, potrebbe far riflettere su una delle possibili conseguenze dell’incontro caotico e disordinato, sempre a rischio di squilibrio, come quello tra l’istinto e la ragione.
La riflessione che segue vuole invece proporre una metafora. Guarda a un piano sociale, in riferimento a un tempo ormai andato, ma non troppo.
L’uomo-cane come metafora dell’essere ai margini, in una storia che seguendo questo gioco, si innesta alla perfezione nel tempo in cui è stata scritta.
La storia è quella di Sarikov, prodotto di “eugenetica” fabbricato nel laboratorio privato di uno scienziato moscovita, che una volta messo al mondo tramite l’innesto dell’ipofisi e dei testicoli di un uomo in un cane viene respinto, rifiutato, e infine eliminato da colui che l’ha creato.
Sembra che nel romanzo venga operata una distinzione cruciale tra due modi di vedere l’essere reietto, il malato mentale dominato in maniera totale dai suoi stessi istinti: da una parte lo spirito progressista e capitalistico che l’ha creato, rappresentato dagli abitanti dell’appartamento dove si svolgono quasi tutti i fatti raccontati.
Un microcosmo il cui daimon costringe a consumare tutto, comprese le sue creature. Dall’altro una società che riesce a re-impiegare l’essere abietto Sarikov secondo le sue capacità (dare la caccia ai gatti) dopo avergli fornito dei documenti, dunque un’identità. Una società, secondo questa lettura, utopistica che deve piegarsi alla logica del padre-padrone avente diritto di vita e di morte sui suoi figli, il quale dell’inganno finale rifilato alla polizia fa una vittoria schiacciante su tutti i fronti.
Dunque le vicende del figlio malato che non ha diritto di cittadinanza nel mondo, la cui esistenza desta troppi problemi, il cui caso è un caso perso e disperato.
E d’altra parte, all’interno di una storia di “scienza fantastica”, troviamo l’unione tra un cane randagio, che all’inizio del romanzo è già ustionato dall’olio bollente che gli è stato gettato addosso, e un essere umano criminale, dedito all’alcool. Due storie semplici e fin troppo scontate che rappresentano il lato oscuro della società in cui viviamo, realtà troppo spesso negate e che non possono essere guardate nella logica razionale che ci trasporta quotidianamente. Due casi irrecuperabili.
Bulgakov condisce il piatto con le spezie del fantastico, del demoniaco, del grottesco, ma il risultato finale non cambia, per un libro che vale la pena di essere letto proprio alla luce del clima ormai prevalente nella nostra società.
Un racconto che termina con la vittoria della rassegnazione e con la tentazione, nel lettore, ad identificarsi e a schierarsi con chi è pronto a giustificare qualsiasi cosa pur di risolvere il problema creato, per ritornare sui propri passi senza avanzare alcuna critica all’oscenità della propria natura bestiale.
Un libro che, per questo, richiede lo sforzo di essere letto e compreso a fondo nel suo significato latente più che in quello manifesto.
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