“Non siamo solo cagnolini”: la filosofia vista da un cane







 

dì Giulia Bertotto (Twitter @GiuliBertotto1)

Giornalista e Filosofa

 

“Non siamo solo cagnolini” (Gilgamesh Edizioni, 2020) di Maria Giovanna Farina, è una raccolta di scritti di filosofia, ma soprattutto è una storia d’amore: tra Giovanna e Milly, una filosofa e una cagnolina.

Una storia d’amore proprio come quella tra l’uomo e la conoscenza, la filo-sofia per l’appunto.

E anche questa storia d’amore, come quella platonica, nasce nel buio di una caverna, o meglio di una galleria, in cui Milly è stata abbandonata.

È una lettura in cui sicuramente si rivedono coloro che hanno un cane, che appassiona gli “addetti ai lavori” ma anche i ragazzi, perché utilizza un registro semplice e confidenziale.

 

L’autrice, con un salto empatico, si lancia direttamente nei panni pelosi del suo cane.
Utilizza l’espediente narrativo della voce della sua Milly, e lo trasforma in esercizio filosofico per riflettere su diversi argomenti: il conflitto tra istinto e civiltà, tra benessere e libertà, che affligge ma rende unico l’uomo, la questione animale e cosa significhi “amare gli animali”, la quale le permette di costruire anche un capitolo dedicato al razzismo.

 

 

La nostra convivenza ontologica (non solo ecologica) con le altre specie agisce su due versanti: quello filosofico in quanto l’animale è sempre uno specchio, un “reagente” della nostra consapevolezza e responsabilità verso il creato e noi stessi. E quello dell’imprinting e dell’attaccamento infantile, della dimensione pre-verbale, delle esperienze emotive totali e non falsificabili che viviamo (o a cui sopravviviamo) da bambini. Gli animali parlano direttamente a quelle memorie ancestrali.

 

Farina tuttavia ci invita ad evitare proiezioni emotive come vedere un figlio nel proprio cane.

 

Badiamo bene, non significa che non sia opportuno dormire abbracciati al nostro cane o rivolgerci a lui chiamandolo “tesoro della mamma” ma occorre stare attenti a non sovraccaricare la sua identità con le nostre mancanze, a non sostituire le sue necessità con i nostri pattern affettivi irrisolti, o con il narcisismo di sentirci finalmente ‘amati senza giudizio’. Un cane può dunque insegnarci in modo concreto a vedere e riconoscere l’Altro. Cioè a rispettarlo.

 



 

Il testo offre anche puntuali e rigorose considerazioni etologiche sulla sviluppatissima memoria del cane, o sulla “speranza” che l’accompagnatore bipede non raccolga le deiezioni, perché la popò non è solo un bisogno fisiologico: è marcare il territorio, socializzare, incontrare un partner, difendere i confini vitali.

Il compagno umano per il cane dovrebbe essere un capobranco, una figura guida irremovibile, ma che proprio per questo garantisce la sopravvivenza del gruppo. Un compagno umano all’altezza del perfetto funzionamento del branco, deve conoscere i bisogni sociali e gerarchici, i quali se non vengono rispettati generano confusione e ansia nell’animale.

Farina ci ricorda che stiamo assistendo e influenzando l’evoluzione cognitiva del cane; sdraiato sul tappeto di casa ci osserva, apprende, gioisce e soffre in modo diverso da secoli fa, e sogna, ci spiega Milly, attraversa fasi di sonno REM, il che fa presupporre perfino un inconscio.

 

Il Dramma dell’Abbandono è un altro tema esplorato nel testo: accade nella Bibbia, in qualche modo la coppia primigenia viene abbandonata, quando Dio caccia Adamo ed Eva dal paradiso.
L’abbandono, più o meno traumatico, accade forse nascendo e crescendo, a ciascuno di noi. Anche il cane conosce l’abbandono da parte dei suoi simili e il pericolo potenzialmente mortale a cui andrebbe incontro se il branco lo isolasse.

 

L’abbandono del cane da parte dell’uomo invece, e il suo viverlo come tale, si rende possibile solo da quando esiste l’addomesticamento; processo che è stato così speciale, anzi unico, tra uomo e cane, rispetto al nostro rapporto con tutte le altre specie (almeno in Occidente). L’abbandono e la crudeltà dell’uomo su altri animali Farina lo motiva con la “Cultura dell’oggetto inferiore” da attribuirsi alla vanità umana.

 

La Fame nel mondo: nessuno muore di fame nel branco dei lupi, dove vi è una “naturale redistribuzione del reddito”, scrive l’autrice.

 

Un sistema severo e rigido, che prevede che prima mangi il capobranco e poi tutti gli altri, tuttavia capace di sfamare tutto il gruppo. Affronta così il problema della sopraffazione nella nostra specie, sfiorando il più complesso e doloroso tema filosofico: il problema del male. Forse davvero Hobbes, che riprese l’espressione di Plauto “Homo Homini Lupus”, per descrivere la ferocia umana, non conosceva affatto questi maestosi canidi.

 

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