Nel Paese del corporativismo più malmesso e frammentato d’Europa, dove l’impresa e perfino il mondo delle associazioni faticano a superare il loro provincialismo, le tante crisi aperte dalla pandemia -ancora di là da venire nel risultato più drammatico- trovano l’incapacità di traduzione della stampa nazionale e la rabbia cieca di un popolo che dell’analfabetismo funzionale, quanto del rifiuto di ogni complessità, ha fatto il suo tratto distintivo.
Se siete riusciti ad arrivare a leggere fin quì sarà dunque un miracolo non tanto per le particolari abilità dello scrivente, quanto per la decisa intenzione di una maggioranza ormai avvezza ai metodi spicci, al linguaggio codificato nella sentenza breve, al dito puntato verso qualcosa o qualcuno da colpevolizzare.
Ma rendiamola più semplice.
Senza dare il giusto peso alle rivendicazioni di buona parte dei 5 milioni di lavoratori autonomi e partite iva attivi in Italia – record in Europa – la manifestazione di Roma del 12 aprile riunita sotto l’hashtag “Io apro”, è passata alla cronaca nazionale come l’incontro fra un manipolo di fascisti del terzo millennio assembrati davanti alle forze dell’ordine.
Se le immagini da Montecitorio certo non hanno descritto l’oceanica avanzata del “Quarto Stato”, considerare quel malumore -rimbalzato fortissimo sui social – solo come la volontà del nuovo fascismo di prendersi lo spazio politico lasciato vuoto dalla maggioranza assoluta di Draghi, è il sintomo di un pensiero cavo, scavato dall’incapacità di analisi figlia dell’epoca delle bandierine, dei loghi e delle immagini, capaci di ammazzare ogni senso di logica e pensiero complesso.
Nell’Italia che si avvia speranzosa verso il post pandemico, l’eredità economica e sociale del virus sarà la patologia numero all’interno di un sistema già zoppo nei mesi antecedenti al marzo 2020.
In questo senso, ogni malumore inascoltato, ogni problema irrisolto segneranno l’ulteriore passo verso lo sfaldamento di una comunità mai pienamente realizzata fuori dalla passione per la nazionale di calcio ma comunque pacificata dopo gli anni di piombo, ovvero solo quaranta anni fa.
Una dinamica mai vista dai più giovani. Cancellata dalla memoria di chi l’ha vissuta. Ordinata in archivio con qualche sentenza strampalata o lasciata marcire nelle indagini senza fine sulle stragi, sugli omicidi eccellenti e su quanto altro la nostra storia abbia lasciato in seno come una serpe pronta nuovamente a mordere.
In risposta a questo rischio, nella narrazione delle briciole di un Paese frantumato, vi è la totale mancanza di empatia verso le tribù diverse dalla propria: dai cassaintegrati sui quali è calata la cortina di silenzio della stampa e della politica, alle rivendicazione del lavoratore autonomo e dell’imprenditore,.
Nel dibattito pubblico deciso a tavolino -ancora e per sempre dai media mainstream- di fronte a una crisi sistemica oggi per assurdo tengono banco le condizioni del povero Patrick Zaki, le battaglie per i pur giusti diritti civili, le faide fra presunti comunisti e nuovi fascisti: ma sullo sfondo di questa luce perennemente accesa sul singolo caso, insistono delle solitudini di massa enormi e ben più difficili da risolvere.
E se in molti non comprendono questa complessità è solo per la quantità di privilegi ancora in essere che coinvolgono una buona fetta della popolazione.
Agli statali che escono con un aumento dello stipendio dalla crisi pandemica e ai dipendenti delle poche, grandi aziende presenti nel Paese, rispondono le difficoltà dei lavoratori disoccupati, di quelli “flessibili” o ancora di quelli occupati nelle microimprese sfibrate dalla crisi (le quali rappresentano oltre il 98% del totale nel sistema produttivo).
A quanto detto si sommano poi le differenze geografiche note, con regioni totalmente abbandonate ai loro atavici problemi, soprattutto al Sud.
Per rendere il concetto in prosa, possiamo dire che il prossimo futuro rischia di essere quella “vita spericolata” cantata da Vasco Rossi:
“Ognuno con i cazzi suoi, ognuno a rincorrere i suoi guai
Ognuno col suo viaggio
Ognuno diverso
E ognuno in fondo perso
Dentro i fatti suoi.”
Ovvero la perfetta premessa di ogni crisi già vista e difficile da risolvere una volta innescata.
Per questo motivo, quanto più le proteste troveranno voce e corpo, tanto più dovranno essere analizzate nella loro pienezza, al di là di qualunque colore le supporti.
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