Quando il divino aveva un codino
Quando si parla di Roberto Baggio bisogna pensare al gesto che traduce la fantasia, al movimento come danza, al calcio ad un pallone come tratto d’artista, a una presenza familiare che timbra un paio di epoche attraverso lo svolazzo del suo “divin codino”.
Roberto Baggio è nel cuore di un Paese intero perché rappresenta l’ultimo analogico prima del digitale, il dribbling sul portiere come gratuità della bellezza, l’esaltazione della tecnica contro lo strapotere dei muscoli.
Giocatore difficilmente associabile a una sola maglia, Baggio è stato il rimpianto di ogni tifoseria.
Infortuni tremendi, rapporti difficili con allenatori che chiedevano all’eleganza di farsi utilitaria per le proprie idee tattiche, la nomea del “coniglio bagnato”, leader mancato per un talento senza tempo.
Non c’è Ronaldo, non c’è Messi, non ci sono nemmeno i Totti e i Del Piero nel paragone con il ragazzo nato a Coldogno il 18 febbraio del 67′: unico, irripetibile, appassionante come quel mondiale americano in cui trascinò l’Italia alla finale di Pasadena.
Usa 94’ e un rigore calciato verso le stelle. Lo scatto iconico della sconfitta.
La testa china, la spossatezza dei quaranta gradi all’ombra e l’orgoglio mondiale nell’irripetibile voce di Bruno Pizzul.
Nonostante la distanza degli anni, ventisette, lunghissimi e pieni di storia, da qualche parte fra i vicoli e i palazzi qualcuno grida ancora “GOL, GOL, ROBERTO BAGGIO!”.
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