Quando la quarantena è una doppia prigione




dì Anna Salvaje

Twitter: @anna_salvaje

 

La quarantena non è uguale per tutti.

Dipende dai metri quadri, dalla presenza di balconi e terrazze, dal numero di computer disponibili per le lezioni dei figli, dagli abbonamenti streaming e dalla capacità di tenere il frigo pieno non lavorando.

E poi ci sono loro. Le donne che in quarantena ci vivono da anni: le vittime di violenza domestica.

Donne che hanno chiuso le porte alla fiducia, ai progetti e ai sogni.

Donne costrette a cambiare le loro abitudini di vita per via di partner abusanti. Donne che costantemente si sforzano di essere invisibili, tutto purché il violento non si irriti. Donne che vivono con la paura costante di essere aggredite, picchiate, umiliate, che in casa propria si muovono stando all’erta, come in un territorio nemico, perché è in quella stessa casa che vive l’orco.

L’alienazione che durante la quarantena  stanno sperimentando le vittime di violenza domestica è ancora più devastante:  il confinamento in casa e il costante contatto con l’aguzzino, senza più le ore passate al lavoro o l’uscita per portare i figli a scuola, senza più un momento da sole in casa o lo sfogo magari al telefono con un’amica, le ha private di qualsiasi posto e attimo per tirare un respiro di sollievo che possa alleggerire l’orrore quotidiano.

Le vittime di violenza domestica sono diverse dalle altre: il loro carnefice non è uno sconosciuto, l’estraneo col passamontagna che aggredisce in una strada buia, ma la persona con la quale hanno coltivato un legame affettivo, progetti di vita, figli.



Seppur banale, bisogna ripeterlo con forza, soprattutto ai tanti che “la colpa è delle donne che scelgono uomini violenti”: nessun uomo violento svela la sua natura nei primi mesi di frequentazione.

Nella maggioranza dei casi, all’inizio della relazione gli abusanti sembrano uomini perfetti, compagni attenti, futuri padri amorevoli.

La violenza arriva sempre dopo con un preciso schema: quella fisica segue la violenza psicologica che ha già annientato forza e autostima, dignità e amor proprio.

I carnefici sanno quando possono “permettersi” di cominciare a usare le mani.

Sono codardi e manipolatori che subdolamente frantumano pezzo per pezzo la fiducia in se stessa della vittima. E più la vittima diventa fragile e vulnerabile,  più la calpestano e la umiliano, consapevoli che le loro prevaricazioni resteranno impunite.



Sostenere che una donna dall’inizio – prima dell’attaccamento, dell’amore, dei figli – scelga consapevolmente un violento, è una inaccettabile colpevolizzazione della vittima.

Il victim blaming (colpevolizzazione della vittima) è quel fenomeno che si verifica essenzialmente in tutti i crimini sessuali e di genere,  per le violenze domestiche come per gli stupri (e non in altri reati quali la rapina o la truffa per esempio).

Un meccanismo che consiste nello spostare l’attenzione e la colpevolizzazione dal reo – vero e unico responsabile della violenza  – verso la vittima, nel ritenerla  parzialmente o del tutto responsabile del trauma che vive o, ancora, oggetto inevitabilmente destinato a subire trattamenti prevaricanti poiché privo di forza e dignità per contrapporsi: donne destinate “a subire” per natura, perché sciocche, ignoranti, ingenue.

Questo fenomeno di associare la “colpa” alla vittima ha conseguenze gravissime (oltre a quello evidente di minimizzare la responsabilità del carnefice)  perché quando una persona subisce un danno, è necessario che il torto subito le venga riconosciuto, che il suo dolore di vittima venga legittimato e che lei stessa si riconosca nel ruolo di vittima.

Il victim blaming spinge invece la vittima a vergognarsi per quanto le sta accadendo: sapere che verrà considerata cretina, una senza spina dorsale che “si fa picchiare”, le fa sperimentare disistima e vergogna.  Vergogna che genera un secondo trauma che, innestandosi in una situazione già di per sé scioccante, spesso impedisce di chiedere aiuto.



Inoltre, quando un torto subito non viene riconosciuto, la vittima, che già fatica a riconoscere il carnefice nel suo compagno di vita, nel padre dei suoi figli (per via della dipendenza affettiva, emotiva, magari anche economica), fatica a percepirsi come vittima e inizia ad autocolpevolizzarsi, a ritenersi responsabile delle azioni del maltrattante  (“l’ho fatto arrabbiare”, “gli ho fatto perdere la pazienza”, “ho sbagliato io”) fino addirittura a provare incertezza e dubitare del trauma vissuto (“forse sto ingigantendo le cose”, “magari l’ho immaginato”, “in fondo è stato solo un attimo”).

Fare victim blaming, colpevolizzare la vittima, è contribuire al suo isolamento e alla sua solitudine, confondendola ulteriormente: è in qualche modo essere complici del carnefice.

Il victim blaming non è altro che la quarantena a cui tutti, per superficialità, ignoranza e assenza di empatia,  obblighiamo le vittime di violenza domestica nei periodi di non epidemia.

Vivere in quarantena per queste persone indifese e prigioniere oggi è un doppio carcere.

A loro l’invito di essere lucide e consapevoli. A noi tutti quello di non dimenticarle e di non essere complici.

Non siete sole: i centri antiviolenza continuano ad essere aperti e operativi, le forze dell’ordine ci sono e gli strumenti di tutela e protezione individuati dalle recenti normative e leggi non sono stati sospesi.




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5 pensieri riguardo “Quando la quarantena è una doppia prigione

  • Marzo 25, 2020 in 3:18 pm
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    Articolo che tratta un tema che è sempre necessario affrontare. Tuttavia, forse in modo inconsapevolmente collusivo, poche parole sul ruolo della vittima vengono usate rispetto alla mole con cui viene descritta la dinamica predatoria dell’orco. Allora l’invito nelle ultime righe rivolto alle vittime di violenza ad essere maggiormente lucide, la richiesta di uno sforzo (a volte utopico) ad essere più ‘coraggiose’ qualsiasi cosa ciò voglia dire, deve essere ripetuto non una ma cento volte. La vittima è vittima, ma deve essere aiutata ad accogliere su di sè la propria responsabilità. E con responsabilità intendo propriamente ‘la capacità di rispondere’ al conto che la vita, per tramite di un uomo violento, le presenta. L’unica via di uscita è questa, la consapevolezza e l’assunzione di responsabilità. Ma anche la costruzione di un’immagine interna che permetta di visualizzarla, quella via d’uscita.

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    • Marzo 25, 2020 in 5:49 pm
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      Bello Anna, concordo su tutto e vorrei che le tante donne che si trovano loro malgrado in una situazione di questo genere avessero la possibilità di leggerlo e seguirne i dettami.
      Grazie

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    • Marzo 25, 2020 in 8:56 pm
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      Quindi, Deker, se ho capito bene se domani qualcuno ti truffa, lasciandoti senza più un euro, oppure una banda sequestra tuo figlio e ti chiede il riscatto o ancora dei mafiosi ti bruciano la macchina o ti fanno trovare il tuo animale domestico ucciso per intimidirti, tu devi assumerti la responsabilità di rispondere al conto che la vita, tramite quel truffatore, quei sequestratori di persona e quei mafiosi, ti presenta.
      Giusto?

      Rispondi
  • Marzo 25, 2020 in 8:58 pm
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    Quindi, Deker, se ho capito bene se domani qualcuno ti truffa, lasciandoti senza più un euro, oppure una banda sequestra tuo figlio e ti chiede il riscatto o ancora dei mafiosi ti bruciano la macchina o ti fanno trovare il tuo animale domestico ucciso per intimidirti, tu devi assumerti la responsabilità di rispondere al conto che la vita, tramite quel truffatore, quei sequestratori di persona e quei mafiosi, ti presenta.
    Giusto?

    Rispondi
  • Marzo 26, 2020 in 9:21 am
    Permalink

    Prevedibilmente, quando la questione diventa un fatto di bandiera, non ha compreso ciò che volevo dire. Gli esempi che ha riportato parlano di fatti dolosi di natura antisociale. Naturalmente anche la violenza di un uomo su una donna lo è, con una piccola differenza: di mezzo c’è una relazione umana, per quanto malata. Allora il punto è: quanto posso incidere io sulle relazioni che porto avanti? Sicuramente tra una donna patologicamente dipendente e un uomo patologicamente violento la pensabilità è ridotta al minimo, ed è su questo che bisognerebbe lavorare a livello sociale, culturale e psicologico, sulla capacità di alimentare una riflessione e una consapevolezza. Ma se la capacità di riflettere aprendosi empaticamente a entrambi gli attori in causa è manchevole anche in chi tratta il tema dall’esterno, il pericolo di sedersi in trincea e mettere gli altri nelle categorie di “a difesa delle donne” e in quella “a colpevolizzazione delle donne” è un pericolo concreto e scoraggiante. Detto questo rinnovo i complimenti per l’interessante e mai banale articolo. Buona giornata.

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