“Quel che resta del giorno” (1993)
“Quel che resta del giorno” è la storia di un uomo, Mr. Stevens, impiegato presso una grande magione inglese dall’inizio degli anni ’30 in poi come Maggiordomo. Sin dall’inizio del film è accompagnato nel suo racconto dalla figura di una donna, Mrs. Kenton, governante puntuale e precisa come lui, ma di carattere più umano, più flessibile e più aperto alle umane vicende interiori.
Due vite, quelle di Mr. Stevens e Mrs. Kenton, immerse più o meno consapevolmente negli anni più importanti del secolo scorso, in un luogo dove si stanno preparando le condizioni per la guerra: il padrone di casa, infatti, nutre forti simpatie per la Germania nazista di Hitler e, provando ad assecondarlo, finirà per contribuire a far entrare l’Inghilterra nella guerra più sanguinosa della storia.
All’interno di un luogo dove accedono le più importanti personalità inglesi e straniere dell’epoca, Mr. Stevens è maniacalmente concentrato sul suo lavoro, sul servizio offerto al padrone, indossando una maschera che, come la divisa del Maggiordomo, nulla deve far trasparire del soggetto che la indossa.
Nemmeno i momenti di affettività che emergono dalla lettura di un libro romantico con il quale viene sorpreso da Mrs. Kenton, o i sorrisi che si lascia sfuggire con lei, lasciano spazio a una concreta speranza di cambiamento: è possibile solo intravedere un qualcosa che non può essere colto, un’emozione coltivata in gran segreto nell’intimità di una vita esposta come un barattolo di vetro scuro sigillato ermeticamente.
L’incontro con l’altro, per quanto promettente, come nel caso della signora Kenton, non è mai davvero un incontro. Nessuna vera capacità di lasciarsi andare emerge, e lo spettatore deve fare i conti con un costante senso di frustrazione nel rendersi consapevole di una continua costrizione, di un costante affogamento dell’emozione, cioè del movimento.
In altre parole, lo spettatore viene invitato a rendersi vittima anch’egli della frustrazione di Mr. Stevens, del sacrificio che costantemente viene fatto della vita sull’altare del Sacrificio stesso.
Quand’anche il vecchio padre muore nella stessa casa, Mr. Stevens non si fa distrarre: avvertito, non lascia trasparire nulla, e subito torna al servizio dei potenti della Terra, riuniti allo sfarzoso tavolo del salone principale.
Come la crudeltà della guerra che nel film viene sapientemente oscurata, con una trama che salta direttamente dagli anni ’30 agli anni’50 e viceversa, così la potenza del conflitto che si svolge in Mr. Stevens non appare mai realmente, censurata e negata. È una crudeltà, quella della Guerra Mondiale e di Mr. Stevens stesso, che appare sotto la luce della forma, della maschera, delle buone maniere che tradiscono l’orrore di un movimento sotterraneo sanguinario.
La morte cruenta dell’uomo e della sua affettività non si vedono mai, poiché ciò che Mr. Stevens mostra giorno dopo giorno è un pensiero già svuotato dell’affetto. Neanche alla fine, in occasione dell’ultimo incontro con Mrs. Kenton, Mr. Stevens sarà in grado di esporsi; per la prima volta, tuttavia, gli occhi lucidi e la voce smorzata di un addio tradiranno il senso di un sentimento di amore soffocato per tutta la vita.
“Quel che resta del giorno” è allora un delicato quanto profondamente drammatico inno alla vita e un invito a non sprecarla.
L’ultima scena, in cui il nuovo proprietario della magione libera il piccione finito per errore nella casa semi-abbandonata, racchiude la metafora di tutto il film. Si deve essere pronti, dopo essersi trovati chiusi e apparentemente senza via d’uscita, a spiccare il volo, a fidarsi di se stessi affidandosi possibilmente all’altro che ci raccoglie e ci aiuta ad aprire le ali.
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