Se la Normale diventa sogno esclusivo dell’upper class
dì @GuidaLor
Non sono mai andato alla Normale e non ho mai visto la Regina in mutande ma è certo che quando il Direttore della più prestigiosa scuola tricolore registra la fine della diversità fra le classi sociali di provenienza degli studenti, ciò che fu del democratico accesso alla cultura si unisce allo strappo generazionale ed economico in atto. Abbiamo così un nuovo, triste tassello da aggiungere nel desolante puzzle della comunità Italia.
Le parole del Prof. Luigi Ambrosio, che dirige la Normale Superiore di Pisa da quasi due anni, sono state recentemente riprese da “La Repubblica” senza generare clamore social o diventare spunto per una riflessione ampia, seppure il tema delle disuguaglianze economiche e psicologiche fra le nuove generazioni sia sempre più attuale, di dominio pubblico e dovrebbe risultare centrale nell’agenda politica.
Al di là degli auspici, dirigenze e corpo sociale proseguono il loro cammino alla cieca verso il futuro, frammentate nei propri individualismi e, da qualche decennio, anche sprovviste del pur minimo ideale con il quale travestirsi, almeno per il buon gusto della forma, ultimo baluardo della concretezza egualitaria.
L'allarme della Normale alla ricerca dei talenti perduti: “Vengono solo figli di ricchi” [di Valeria Strambi] [aggiornamento delle 00:01] https://t.co/cQUWCYcesr
— Repubblica (@repubblica) December 15, 2020
C’è una cosa che si chiama ‘capacità di aspirare’ e che per l’antropologo Appadurai non si forma tra chi è povero. Questo è un aspetto della povertà che non si affronta semplicemente mettendo a disposizione risorse quando il danno è stato fatto.
— Enrica Morlicchio (@enmorlicchio) December 15, 2020
SE NON E’ PIU’ NORMALE
La Normale di Pisa offre vitto, alloggio, corsi, una esclusiva rete di relazioni per le migliori menti del futuro che in questa sede possono conoscersi, connettersi, crescere.
L’accessibilità traversale di un tempo, tale da rendere il figlio di un agricoltore come Adriano Prosperi oggi Professore Emerito, si è interrotta nella preminente richiesta dei figli dell’alta borghesia.
Le domande di quel proletariato mischiatosi negli anni all’upper class, tutto impegnato a simularne atteggiamenti e vizi, latitano nell’illusione di colmare il divario sociale con l’assalto alle mete turistiche una volta esclusive ed oggi cheap o con l’acquisto dell’oggetto di marca, calibrato al prezzo di mercato più appetibile.
In poche parole, il nuovo sottoproletariato è stata coinvolto in quel processo consumistico che è riuscito a divorare tutto allattando con latte avariato. Sono stati nutriti i suoi bisogni primari senza poterli garantire nel lungo termine, mentre moltiplicavano i privilegi di una nicchia pur numerosa, passata indenne attraverso gli oltre 15 anni di crisi economica, guerre e pandemie varie.
Tale dinamica di mimetizzazione della low class, iniziata a partire dagli anni 60′ e 70′, ha annientato l’orgoglio della diversità, svuotato il bagaglio umano di conoscenze e tradizioni secolari delle classi più umili, depotenziato la voglia di riscatto, spazzata via nei grembiuli già fascistissimi e in un politically correct vuoto come i barattoli prodotti in serie di Piero Manzoni.
Con la consueta capacità premonitrice e nella preoccupazione di chi vedeva sparire un mondo senza scorgere orizzonti poetici, Pasolini denunciava tale trasformazione in uno dei suoi pezzi più famosi: “Acculturazione e acculturazione”.
Anziché cogliere il messaggio di Pasolini, abbiamo trasformato l’intellettuale in icona pop: leggerezza di un mondo che non sopporta più il carico pesante e celebra la complessità proprio come si fa con un martire.
A partire dagli anni 60′, la crescita economica si è sovrapposta al concetto di sviluppo, coinvolta con le nuove dinamiche in un sorpasso inesorabile per la differente velocità di realizzazione dei due fenomeni. Quanto avvenuto nelle decadi successive è stato per lo più difesa del bottino raccolto e dello status quo. Tutto il contrario di una comunità.
L’interruzione della scala sociale, favoletta di un capitalismo che si nutre dello sfruttamento degli ultimi da sempre, ovunque essi siano – e possibilmente lontano da suoi occhi – oggi torna a far parlare di sé anche per storie di nicchia come quelle della Normale, realtà che i giovani delle classi meno abbienti non guardano più come trampolino di lancio verso il futuro, ripiegando verso altre scelte.
Quello che avviene a Pisa è dunque un processo di trasformazione della società che si è pacificata nell’unica battaglia capace di tenerla in vita: la voglia e la capacità di alternarsi nei posti di comando.
Lo strappo sociale che si è creato anche nelle aspirazioni, va sommato a quello delle differenze salariali, nel divario pubblico – privato, nei nuovi diritti portati dalle tecnologie a vantaggio (ancora) di poche migliaia di lavoratori. Il rischio è sempre lo stesso: il mutamento della frustrazione in rabbia e odio.
Risentimento che comincia a moltiplicarsi fra più generazioni e può trasformarsi in uno tsunami fuori controllo, come le piazze viste recentemente o, più banalmente, per quanto già successo nella ruota della nostra storia con le bande organizzate, movimenti estremisti, terrorismo più o meno guidato dall’alto.
Ma restiamo un Paese smemorato e così sia.
I DATI DEL DIVARIO
La ricetta per un mix letale è tutta nei dati offerti quotidianamente dai mass media e fruibili sulla rete.
Il divario di apprendimento e risultati fra studenti del Nord e del Sud Italia è dimostrato da più verifiche, così come l’abbandono scolastico risulta peculiare di alcuni territori. Il numero di laureati, seppur in crescita, resta ancora lontano dalla media europea alla quale dovremmo ambire in quanto gigante economico.
Sempre più lavoratori -in misura di oltre il 12% secondo le ultime analisi- si trovano nella soglia di povertà. E questo risolve il problema dei figli sfiduciati a monte: se non nascono, certo non potranno presentare domanda per la Normale.
La precarietà, altro frutto decennale maturato ben prima della pandemia, risponde ancora una volta alla domanda su quel divario che lascia a bocca aperta solo i banali e trova il suo naturale compimento nel pensiero espresso da un Presidente di Confindustria che assolve qualche morte da covid per il bene dell’impresa, dei capitani, piegata alla qualità dei primi, già consapevole ma non soddisfatta di aver ammazzato sogni, umiliato il pensiero, cancellato il diritto con la legge di una politica consenziente che gli ha saputo offrire il precariato come una vergine da divorare.
Laddove non c’è rete non vi è crescita: è la legge del mare. Quanti non possono nuotare in branco sono costretti a nascondersi nei meandri della barriera corallina. I pochi che cercano di emergere dal fondo melmoso, conoscono il rischio di essere mangiati dagli squali.
Nel nostro acquario privatissimo, le crepe non mancano già da ieri: quanto potrà reggere ancora la vasca e l’attuale ecosistema senza una vera rivoluzione riformista ispirata all’equità, è un dubbio che potrebbe sciogliersi domani o tra qualche mese: qualche anno, nella migliore delle ipotesi.