Intervista a Silvia D’Amico: il mondo dei biologi e la lotta al Sars-CoV2

dì Lorenzo Guidantoni per I Fatti Capitali

Twitter : @ifatticapitali – @GuidaLor




Silvia D’Amico è una biologa calabrese trapiantata a Roma, che lavora come Contrattista di Ricerca presso l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù (OPBG). Ha un dottorato in Biologia Cellulare e Molecolare ed attualmente si occupa di ricerca traslazionale sui tumori pediatrici.

Allo stesso tempo, fa parte insieme ad altri giovani professionisti di un’Associazione di Promozione Sociale, Nemo-Allenamento e Cancro, che si propone di offrire sostegno e di diffondere l’importanza dell’esercizio fisico come terapia integrativa per le donne con tumore al seno.

Invio un sentito ringraziamento al giornalista Riccardo Fanciola (@RFanciola) per aver favorito il contatto con Silvia.



  • Prima domanda prettamente giornalistica: la definizione esatta del protagonista di questa terribile pandemia è coronavirus, covid19, o Sars-Cov2?

Il nome corretto del virus responsabile della pandemia è SARS-CoV2, parente di quello che abbiamo conosciuto qualche anno fa come il virus della SARS (e che in realtà rispondeva al nome di SARS-CoV).

Il termine COVID-19, invece, fa riferimento alla sindrome respiratoria derivante dall’infezione da SARS-CoV2. Infatti, COVID-19 non è altro che l’acronimo di COronaVIrus Disease 19 , ovvero Malattia da Coronavirus 2019.

Per Coronavirus, invece, si intende una intera famiglia di virus responsabili di malattie di tipo respiratorio che possono avere diversi livelli di gravità. Alcuni di essi causano semplici raffreddori, altri sono responsabili di sindromi ben più gravi, come appunto il SARS-CoV2. Volendo riassumere e semplificare, il virus che stiamo combattendo si chiama SARS-CoV2, è un Coronavirus ed è responsabile della COVID-19.

 

  • “Nell’articolato mondo della scienza italiana, quella del biologo è una carriera piuttosto coraggiosa da intraprendere”: luogo comune o  verità incontestabile?

Diciamo che non è una delle carriere più semplici da intraprendere.

Il lavoro del Biologo richiede anni di studio, necessari a costruire competenze solide che consentiranno al professionista formato di contribuire nel migliore dei modi al progresso della scienza e della medicina.

I biologi trovano impiego negli ambiti più disparati, nella Sanità, nella Ricerca, nelle industrie Farmaceutiche, nel mondo degli Studi Clinici, nell’ambito della Nutrizione, per non parlare di tutto il filone dedicato all’industria ed all’ambiente.

Tuttavia, esiste uno scollamento marcato tra la percezione che la società e la politica hanno del ruolo del biologo e quello che questo è in realtà.

Complice un lavoro in larga parte svolto dietro le quinte, ed anche una scarsa interazione con il pubblico da parte nostra, il contributo del Biologo non è percepito come essenziale. Ciò si riflette a cascata su tutta una serie di dinamiche, che vanno da una professione largamente precaria ad anni di lavoro sostanzialmente non retribuiti e quant’altro.

Paradossalmente, un esempio di questa situazione si ritrova proprio nella comunicazione giornalistica in cui, non raramente, studi e scoperte realizzati da Biologi vengono in realtà attribuiti ai Medici e ciò ha una duplice conseguenza: si instaura una comunicazione errata e si contribuisce involontariamente a sminuire il lavoro di un gran numero di professionisti che hanno studiato e contribuiscono ogni giorno alla salute ed al benessere di ognuno di noi.

  • Sul sito change.org è stata lanciata una petizione dal titolo #BastacamicidiserieB. In sintesi, quali sono le richieste dei biologi italiani?

La protesta è partita dai Biologi, ma non riguarda solo loro. Interessa , più ampiamente, tutti gli specializzandi non medici, una categoria di professionisti che ad oggi sono trattati un po’ come camici di serie B.

Infatti, l’aver frequentato una Scuola di Specializzazione rappresenta una condizione fondamentale per lavorare all’interno del Sistema Sanitario Nazionale. È una regola valida tanto per i Medici quanto per i Biologi, ma i livelli di accessibilità di questo requisito sono drammaticamente diversi per le due categorie. Sebbene gli obblighi previsti, in termini di studio e ore di lavoro, siano gli stessi per tutte le scuole di specializzazione, solo i corsi destinati ai Medici prevedono una retribuzione.

Gli specializzandi non Medici, tra cui appunto i biologi, pur con lo stesso impegno in termini di ore di formazione e di lavoro, non ricevono retribuzione né hanno diritto a borse di studio che siano in grado di sopperire a questa mancanza.

Quale conseguenza di ciò, sono costretti a provvedere in altro modo al proprio sostentamento ed al pagamento della retta d’iscrizione, il che presuppone attingere ai propri risparmi o rivolgersi ai propri familiari. Del resto, le attività della Scuola di Specializzazione risultano incompatibili nei fatti con altre attività lavorative.

Quello che la petizione vuole è solo l’attuazione di una sentenza del Consiglio di Stato risalente al 2013, la quale ha imposto ai Ministeri l’obbligo di retribuire gli specializzandi, in osservanza dell’art.8 della Legge n.401/2000 e che, a detta dei promotori della petizione, non è stata ancora attuata.



  • Arriviamo alla nota vicenda del Presidente dell’Ordine Nazionale dei Biologi, Vincenzo D’Anna: prima si dimette, poi ritira le dimissioni. Dal tuo punto di vista, quali sono le maggiori criticità del suo operato?

Diciamo che, negli anni e anche negli ultimi mesi, le posizioni espresse pubblicamente dal Presidente dell’Ordine dei Biologi sono state percepite da molti come quanto meno controverse. Ciò ha avuto sicuramente un effetto divisivo, in quanto agli occhi della gente comune può essere involontariamente passato il messaggio che la posizione dei Biologi non sia allineata a quella della Comunità Medica e Scientifica in generale, quando chiaramente non è questo il caso.

 

  • Per effettuare tamponi o ricercare anticorpi in chi è stato infettato, sono necessari centri di ricerca altamente attrezzati, o un qualsiasi laboratorio di analisi privato potrebbe svolgere queste analisi?

Innanzitutto, è necessario fare un distinguo importante. I test per la ricerca di anticorpi ci consentono di rintracciare quegli individui che, a seguito dell’infezione, abbiano sviluppato una reazione immunitaria.

Considerato che gli anticorpi sono presenti anche al termine dell’infezione, con test di questo tipo si individuano le persone che sono entrate in contatto con il virus, a prescindere dal loro essere ancora infettivi.

È sicuramente utile per capire quante persone hanno sviluppato una eventuale immunità, anche se non sappiamo ancora quanto questa possa essere duratura, ma non va bene per capire chi è attualmente infetto ed in grado di trasmettere il virus. Test di questo tipo sono in fase di validazione, ovvero si sta cercando di capire quanto siano accurati prima di usarli su larga scala ed alcuni sono già pronti.

Per isolare gli individui infettivi, invece, dobbiamo essere in grado di rivelare la presenza del virus.  Il modo più sensibile e sicuro per farlo è certamente l’analisi di un tampone faringeo.

Quando parliamo di tamponi, in realtà, facciamo riferimento alla procedura con cui il campione da analizzare viene raccolto dal paziente e successivamente conservato.

Effettuare un tampone è una procedura semplice, con pochi limiti dal punto di vista pratico. I problemi veri vengono quando si parla di analizzare i tamponi e, quindi, estrarre da questi il materiale virale eventualmente presente e successivamente analizzarlo.

La procedura si basa essenzialmente sull’identificazione e la quantificazione del genoma del virus, attraverso specifici reagenti ottimizzati per questa funzione e seguendo metodiche standardizzate.

Certamente, per svolgere un’attività di questo tipo sono necessari dei macchinari con un costo rilevante e degli operatori specializzati. Tuttavia, si tratta di un tipo di tecnologia che trova applicazione in molti campi. Con in giusto reagentario, un laboratorio con esperienza adeguata in biologia molecolare potrebbe fare questo tipo di test.

 

  • “Dobbiamo fare più test” è diventato il mantra di epidemiologi e analisti. A quanto leggo, sei d’accordo con questa richiesta ma lamenti la mancanza di DPI (Dispositivi di Protezione Individuale) in numerosi centri di ricerca. Mancano i materiali o le risorse umane per accelerare la ricerca di un’arma efficace contro il coronavirus?

Fare più test è auspicabile e necessario. Di sicuro lo sarà nelle fasi successive , in cui probabilmente si origineranno dei piccoli focolai che sarà fondamentale isolare fin da subito per evitare recrudescenze dell’epidemia.

Di certo, non è pensabile né strategico fare test a tappeto, è necessario organizzare campagne di screening mirate, che consentano sia di mappare quanto è davvero diffuso SARS-Cov2 e quali siano i canali principali di diffusione.

Sarà importante anche per stabilire quante persone siano già venute a contatto col virus e consentir loro di tornare al lavoro, in condizioni adeguate e con le dovute cautele, quando le misure di restrizione avranno sortito l’effetto sperato e potremo pensare di ripartire gradualmente e in sicurezza.

Non posso dire che mancano le risorse umane, 280 scienziati, tra responsabili di gruppi di ricerca e di interi istituti, hanno fatto presente la propria disponibilità a riconvertire momentaneamente la propria attività proprio per offrire una maggiore potenza di analisi per fronteggiare l’emergenza.

Sono tantissimi, poi, i Biologi che hanno espresso il desiderio di contribuire anche come volontari in questo senso. Quel che manca sono i materiali e certamente di DPI, necessari a garantire la dovuta sicurezza a Biologi e Tecnici di Laboratorio che maneggiano i campioni.

C’è da dire che non si tratta di una circostanza tutta italiana: anche in Australia, ad esempio, i medici si ritrovano a combattere con una carenza di dispositivi di protezione.

In un momento in cui si sta combattendo una pandemia a livello globale, la domanda per un certo tipo di materiali e reagentario è molto più alta rispetto all’offerta, tanto più che molte delle aziende produttrici di reagenti per la Biologia Molecolare producono fuori dal nostro paese.

Di fatto, se anche avessimo il via libera per iniziare ad analizzare un gran quantitativo di tamponi già domani mattina, probabilmente non avremmo reagenti a sufficienza e DPI in grado di tutelare la salute di tutti gli operatori che, maneggiando materiale infetto e lavorando a stretto contatto con i propri colleghi, non rischierebbero meno di un medico in corsia.



  • I tempi di attesa per l’analisi di un tampone dipendono da fattori tecnici insormontabili o un maggior numero di biologi e materiali a disposizione potrebbero accelerare il processo?

C’è innanzitutto un problema di legislazione e di competenze. Non tutti i laboratori sono autorizzati a maneggiare ed analizzare campioni di questo tipo con i corretti standard diagnostici.

Di certo, visto l’eccezionalità della situazione, è auspicabile che si faccia qualche deroga, ma è importante che ciò non vada ad inficiare la validità e la riproducibilità dei risultati ottenuti, altrimenti avremo solo sprecato del materiale e del tempo prezioso.

La procedura, poi, è di per sé laboriosa e limitata da tempi tecnici (servono in media due ore per preparare i campioni all’analisi più un’ora per l’analisi stessa) e dalla capacità fisica dei macchinari impiegati di processarli (Comunemente, sono analizzati 96 per volta, anche se in alcuni casi si può arrivare fino a 384) che sono comunque sofisticati, costosi, e di non semplice costruzione.

L’idea che mi sono fatta è che, nei fatti, esista la potenza analitica necessaria ad aumentare il numero di test e di molto. Tuttavia, non tutte le strutture disponibili a contribuire sono pronte da un punto di vista di buone pratiche e standard diagnostici, sebbene si stia lavorando per colmare queste mancanze.

Diciamo che la combinazione di questo fattore e della difficoltà di reperire materiali non ci consente ancora di processare il numero elevato di campioni che vorremmo, ma abbiamo potuto vedere come già nella scorsa settimana ci sia stato un aumento delle analisi effettuate.



  • A tuo modo di vedere è solo questione di tempo o è concreto il rischio di non riuscire a sviluppare un vaccino contro il SARS-CoV2?

È una cosa che allo stato attuale non possiamo dire. Dipende da molti fattori che gli addetti ai lavori stanno valutando volta per volta, man mano che un numero sempre maggiore di evidenze sul funzionamento del virus e sulla sua interazione col sistema immunitario sono disponibili. Di certo, sono molti i laboratori, in larga parte pieni di Biologi appunto, in cui si lavora in questa direzione. Ogni gruppo di ricerca usa un approccio differente e questo rappresenta, a mio parere, una strategia vincente: è necessario affrontare il problema da diversi punti di vista per riuscire a trovare la soluzione più efficace, in questo modo andremo certamente più veloci.

Anche se ci piace sottovalutarci, da Italiani non siamo da meno neanche in questo campo. Infatti, è proprio una piccola azienda biotecnologica italiana, la Takis, ad essere l’unica azienda italiana e la prima in Europa ad aver accesso alla fase di studio preclinico di un vaccino sperimentale contro SARS-CoV2.

Si tratta di un’azienda in cui lavorano per la maggior parte giovani professionisti e sono certa che ci darà grandi soddisfazioni. Inoltre, ad Aprile è atteso l’inizio delle sperimentazioni di un secondo vaccino made in Italy, prodotto da ReiThera, che si è già distinta ai tempi dell’epidemia di Ebola.

Tuttavia, esiste sempre una possibilità che non si arrivi ad avere un vaccino efficace al 100%, è una situazione che si è verificata in passato con altri patogeni e che non possiamo escludere. In tal caso, dovremo puntare tutto su terapie efficaci e una diagnostica precoce che ci consentano di intervenire in modo efficiente fin da subito. In ogni caso, sono ottimista.

Ce la stiamo mettendo tutta e sono convinta che riusciremo a venirne a capo.




 

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