Sullo scrivere in quarantena



dì G.C. (Utente Facebook)

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Sono trascorsi solo quattro giorni dall’inizio della quarantena e nonostante sin dall’inizio mi fossi prefissato di scrivere (passando dall’idea di una poesia, a riflessioni generali, fino al romanzo di forte impatto per l’umanità) non ho ancora fatto nulla.

Meglio così, forse. Ma al di là di questo, come sempre accade quando si cerca di cogliere dei frutti dall’albero dei propri problemi, è giunto il momento di chiedersi il perché.

Ogni scrivere d’altronde ha le sue cause e in questo momento ne posso comprendere due: scrivere significa mettere al mondo qualcosa, innanzitutto. Il mettere al mondo qualcosa, o qualcuno, implica allo stesso tempo la necessità di guardarsi un po’ dentro. Per certi versi potremmo dire che guardarsi dentro produce sempre qualcosa.

Mi correggo, non sempre: la maggior parte delle volte lo sguardo interiore vaga illuminando fugacemente qualcosa, come il faro che illumina di notte il mare. Spesso è questo il movimento dell’introspezione: un fascio di luce sul vuoto che a poco è utile per guardare; l’unico suo scopo sembra infatti quello di segnalare una presenza.

E nel caso del nostro sguardo interiore, pare che questo sia la rapida e distratta segnalazione di ciò che avviene all’esterno, e che ci trapassa. Nulla viene veramente illuminato; qualcosa si segnala. Credo che questo serva per mantenere un contatto con la realtà, e rappresenta il nostro funzionamento abituale. La luce in sé non serve a niente, e serve a tutto.



Ma ecco giungere il momento in cui qualcosa si muove: la sagoma di una barca diventa sempre più definita, fino a diventare, ogni qual volta la luce del faro la illumina in modo intermittente, sempre più grande. Un contenuto dell’oscurità si palesa, e viene prodotto proprio da quello sguardo interiore che lo illumina.

Sono concetti triti e ritriti in psicoanalisi, ma credo che rintuzzare vecchi concetti con nuove immagini non guasti mai. La vera domanda che mi pongo riguarda invece il come mai, in un periodo dove ci dicono essere a disposizione così tanto tempo, mi viene da scrivere così poco, tanto che queste riflessioni vengono vergate alla solita ora di sempre, nel silenzio della notte.

Certo, durante la giornata gli svaghi offerti da internet e dal nostro stile di vita sono molti, e il coronavirus garantisce alla nostra società contatti sociali comunque maggiori rispetto a quelli promossi dalla peste nera del milletrecento, ma non è tutto qui.




C’è un motivo ben più preciso. Da giorni ci tampinano proponendo attività da fare in casa: si può rimettere in ordine, cucinare cose nuove, leggere un libro, guardare un film, suonare uno strumento musicale, scrivere… Tutte soluzioni proposte alla rinfusa affinché la gente eviti di annoiarsi. Eureka! Fino ad oggi mi sono piegato a questo! Mi sono piegato al discorso del capitalista.

È per questo che fino ad oggi non ho scritto. Dovevo evitare quel “senso di insoddisfazione, di fastidio, di tristezza, che proviene o dalla mancanza di attività e dall’ozio o dal sentirsi occupato in cosa monotona, contraria alla propria inclinazione, tanto da apparire inutile e vana” (Treccani).

Quale attività, se non lo scrivere, rappresenta meglio il sentimento della noia? Sto parlando ovviamente di una certa natura dello scrivere, quella che nasce dal fascio di luce costantemente doloroso che viene dal di fuori, dall’ “al di là”.

La scrittura è come la vita: non merita elogi, poiché spesso è traditrice e provoca noia; tuttavia non possiamo farne a meno.



A volte avremmo la tentazione di liberarcene, certo, ma quasi sempre finiamo per inchinarci a questi due nuclei primari dell’Esistenza: la scrittura e la vita. Vivere e scrivere, cioè annoiarsi. Ecco perché di questi tempi è così difficile: non si deve avere a che fare con la noia, ma con l’attività.

Non si deve sentire il vuoto della vita, ma colorarne il pieno. Dobbiamo cantare l’inno di Mameli sul balcone per evitare di stare in casa a riflettere su chi siamo, a misurarci con l’entità del nemico invisibile che abbiamo di fronte e che ci spaventa a morte, quando la morte non ce la porta.
Cosa importa la noia, in un mondo che sfrutta anche, e direi soprattutto, un virus pandemico per evitarla? E in fondo può essere anche giusto così.

Che cosa può importare la noia, se ci fa prendere contatto con nient’altro che dolore? Se ci avvicina così tanto all’impotenza, sorella della noia, parente stretta, che poco prima di questi giorni ci faceva come al solito voltare le spalle alla Verità, che ci faceva paradossalmente (ma non troppo) sentire onnipotenti, autorizzati a continuare ad ignorarla nelle nostre feste infinite e fatue, nei nostri famosi aperitivi… Questo ci hanno insegnato, che non dobbiamo avere mancanze: eppure siamo pieni di buchi.



“Senso doloroso della vanità della vita” è un’altra definizione di noia. La vita è vanitosa, e l’uomo non può permetterlo: in quanto strutturalmente vuoti, siamo noi ad avere bisogno di quella vanità, e così ce ne siamo appropriati. La noia è sconfitta, e tutto ci porta a credere che il virus abbia i giorni contati.




foto https://pixabay.com/it/photos/scrittura-scrittore-note-penna-923882/

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