The Place – Storie di scelta e responsabilità
Innanzitutto un’umile opinione da non addetto ai lavori: un film che ambientato in un unico luogo riesce a tenere incollato lo spettatore allo schermo per tutta la sua durata dovrebbe essere sempre considerato un grande film. Forse è per questo che “The place” dura poco più di un’ora e mezza. “The place”, un’opera che rappresenta l’incontro del tutto speciale tra un uomo e altri uomini.
Le persone che si recano dal misterioso ‘abitante’ del bar sono uomini e donne mossi dal desiderio di raggiungere qualcosa, che hanno perso di vista il significato più profondo del modo in cui qualsiasi cosa può essere raggiunta: la scelta. Si badi bene che i contenuti delle richieste dei clienti non sono così importanti quanto il processo che sottende il loro soddisfacimento.
In altre parole, al di là di ciò che vogliono ottenere, i clienti sono messi di fronte alla possibilità di scegliere, un concetto alla base della libertà umana, che è proprio il fardello che più di tutti l’uomo fatica a tenere sulle spalle, poiché è legato a doppio filo ad un altro pesante fardello, quello della responsabilità personale.
Bisogna fare un piccolo sforzo per comprenderlo, ma l’ascolto dei dialoghi tra l’uomo del bar e i suoi interlocutori ci permette di osservare una dinamica interessante: da una parte un uomo che propone, che afferma, che in maniera apparentemente glaciale legge condizioni come fossero condanne, che comunica in ultima analisi qual è il prezzo da pagare per raggiungere un obiettivo, o per meglio dire per scoprirlo.
Dall’altra l’esito di questa comunicazione neutrale, ferma: alcuni reagiscono con rabbia, altri con il rifiuto e la negazione di loro stessi o dell’uomo di fronte a loro. In alcuni si instilla il dubbio, in altri lo stupore, protagonista è la paura, principalmente di se stessi. E il peso dell’aver messo in risalto la semplice esistenza della scelta torna indietro a colui che l’ha scaricato sugli avventori come un boomerang. Gli torna sotto forma di emozioni di cui egli stesso diventa oggetto. Agli altri non rimane che il poter scegliere o non scegliere tra le due alternative che vengono offerte: fare o non fare. La possibilità della scelta rimane, ma niente è più come prima: il fatto di aver conosciuto la possibilità della scelta risveglia in queste persone una vasta gamma di reazioni e la sensazione che in un modo o nell’altro qualcosa debba per forza essere cambiato.
Tutto quel che segue all’accettazione delle condizioni poste, delle condizioni umane della scelta e del sacrificio di qualcosa, viene accolto dall’uomo del bar senza giudizio. Negli incontri che vengono fatti dopo il patto stipulato, niente è valutato positivamente o negativamente, categorizzato nella dicotomia bene-male: tutto è solo profondamente umano.
Ma la domanda implicita con cui i clienti si siedono al tavolo è più profonda ancora del contenuto della scelta. Gli avventori chiedono qualcosa su di loro, sulla loro identità, chiedono ad un altro uomo chi essi siano, cosa possono essere in grado di fare nel bene e nel male, e l’uomo seduto al tavolo del bar, mostrando loro la scelta, non fa altro che cercare di aiutarli a comprenderlo.
Solo loro possono farlo. Freud, affermava, riprendendo Michelangelo, che l’analisi di se stessi è un lavoro simile a quello della scultura, in cui si agisce “per via di levare” e non “per via di porre”. Ecco perché l’uomo seduto al tavolo non dà mai risposte, né consigli.
In altre parole, così come Montale ricorda, non è possibile chiedere una parola che apra alla comprensione del mondo per mezzo di una risposta; è possibile, semmai, continuare a porre domande a se stessi, interrogarsi costantemente, perché in fondo “codesto solo oggi possiamo dirti/ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.
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