Voglia di sciare e povertà assoluta: l’Italia verso il modello Sudamerica
Nel bel mezzo della terza ondata, con l’aumento della disoccupazione e l’implosione di alcuni partiti della maggioranza assoluta riunita sotto al fantasma di Mario Draghi, il Paese si scopre ancora più lacerato dalla pandemia attraverso lo specchio offerto dall’Istat, con i numeri relativi alla povertà assoluta che nel 2020 stringe nella sua morsa 5.9 milioni di cittadini, un milione in più rispetto al 2019.
La povertà assoluta è definita sulla base delle spese essenziali (casa, cibo, vestiti, salute etc.), in rapporto al numero di componenti del nucleo familiare e alla zona di residenza.
Nel caso di una famiglia residente al centro Italia, formata da due genitori fra i 18 e i 60 anni di età, con due figli fra i 4 e 10 anni, la soglia di povertà scatta a partire dai 1.579 euro: ovvero poco più dello stipendio di un impiegato statale e meno di due casse integrazioni medie riunite sotto lo stesso tetto (sempre che queste siano arrivate).
A partire dal 2005, l’Italia è passata dal 3.3% all’attuale 9.4% di poveri assoluti.
Nel frattempo il 5% della popolazione italiana possiede la stessa ricchezza detenuta dal 90%.
Per calcolare quale sia la soglia di povertà della vostra zona, vi rimandiamo al sito dell’Istat
OLTRE I NUMERI
La più grande lezione che la pandemia dovrà lasciare alla politica e all’informazione italiana riguarda l’utilizzo dei numeri e dei report.
Come per i dati relativi alla pandemia, anche nella soglia di povertà il calcolo appare approssimativo: se una famiglia con due figli residente nel centro Italia viene considerata fuori dalla povertà con 1.600 euro mensili totali, siamo nel favoloso mondo del report matematico ma completamente lontani dal piano della realtà e dall’istantanea di un Paese ancora più sfibrato di quanto non rivelino i calcoli ufficiali.
Sorvolando sui discutibili metodi di ricerca dell’Istat, lo studio aiuta comunque a tratteggiare per difetto una società impoverita, nella quale a pagare il prezzo delle crisi sono uomini e donne fra 35 e 49 anni, ovvero il cuore della forza produttiva e sociale.
TUTTA COLPA DELLA PANDEMIA?
In quindici anni i “poveri” si sono triplicati. La pandemia insiste sul Paese da poco più di un anno.
Qualcuno potrebbe far notare che il precariato, la disoccupazione dovuta anche alla digitalizzazione (sulla quale mancano studi ufficiali), l’accentramento delle realtà produttive, la pressione fiscale sul lavoro, sono la base di un piatto acido nel quale la pandemia si è limitata ad aggiungere l’ingrediente micidiale del caso.
Una enorme massa di lavoratori impoveriti dalla cassa integrazione, dalla disoccupazione o dentro la soglia di povertà in misura del 12% pur se occupati, in un complesso di spese che in rapporto alle buste paga ha tagliato in maniera ancora più cospicua lo stile di vita e le possibilità.
Malumore generale che coinvolge milioni di cittadini ai quali i partiti sembrano non saper più rispondere in maniera organica, limitandosi ad affrontare l’emergenza di turno, l’emorragia del momento.
RICCHI E POVERI
A ben più di un decimo della popolazione che arretra sul piano sociale ed economico aggrappandosi al welfare, alle pensioni degli anziani genitori o ancora consumando i propri risparmi, risponde una società dei primi nella quale ci si indigna per la mancata settimana bianca, si combatte (giustamente) per mantenere lo smartworking come modalità di lavoro integrata nel complesso produttivo, si aggiunge il problema del tempo libero e della qualità della vita al traguardo già raggiunto di un guadagno salariale sufficiente per rispondere ad esigenze e imprevisti.
Una scissione drammatica che mina alle fondamenta il patto sociale capace di tenere in piedi una democrazia.
Realtà riscontrabile non solo nei numeri ma anche nel dibattito pubblico in cui tengono banco le istanze di una società dei primi o dei penultimi, dall’imprenditore all’impiegato pubblico, dimenticando la voce di un esercito in costante aumento.
Prova ne sia il silenzio attorno al caos INPS, con milioni di lavoratori in attesa da mesi dei già poco lauti “ristori” promessi dal Governo, per un dramma capace di occupare qualche pagina di giornale e poco più.
In questo senso, una politica devastata e un Premier proveniente dal mondo della più alta finanza non sembrano certo la migliore premessa per la necessaria attenzione verso la bomba sociale che cova ormai da due decenni fra balletti e lustrini dei salotti tv o sui quotidiani di quei pochi finanzieri e industriali rimasti nel Paese.
DISINNESCARE LA BOMBA SOCIALE
Pensare di tornare a stretto giro verso livelli di sviluppo economico capaci di assorbire la platea di più generazioni inchiodate nella soglia di povertà è pura utopia.
Continuare a ignorare ciò che ha tutti gli effetti è diventato il nuovo sottoproletariato sarebbe il suicidio e il tradimento della nostra democrazia, costruita sulle belle parole della Costituzione.
Pertanto, soprattutto in un momento di transizione come quello attuale, risulta necessario riorganizzare il welfare, strutturandolo secondo principi differenti dal reddito di cittadinanza e, al contempo, alleggerendo in maniera drastica il peso della tassazione sui lavori meno remunerati.
Un processo di trasformazione e redistribuzione favorito dal controllo offerto dalle tecnologie.
Il rischio del famoso “stato di Polizia” per il rapido monitoraggio del rapporto introiti/spesa dei cittadini è una vecchia storia da superare quando si entra in stato di emergenza.
D’altronde è quanto già successo per la pandemia attraverso il severo lockdown: perché non applicare lo stesso metodo al sistema di controllo dell’economia sommersa?
Tanto più che la privacy, assunta a vergine maria dai diavoli dell’evasione, non spaventa di certo chi è ridotto in povertà.
Con la disoccupazione che da nord a sud cresce a macchia di leopardo, risulta impensabile anche al più ostinato reganiano pensare di fare affidamento sulla ristretta società dei primi come traino per tirare fuori dal fango una moltitudine, difficilmente rintracciabile solo perché geograficamente mischiata nel paesaggio urbano di un Paese quale le favelas non si trovano arroccate su qualche collina ma sono state ben disposte in verticale dentro ai palazzoni delle periferie o nelle scalcinate palazzine delle città al sud.
Da una sciata fuori pista alla valanga il passo è breve.
Tenerlo a mente oggi per tornare ad abbracciarsi domani.