Zingaretti, il Segretario di transizione nel perenne risiko del PD




 

dì @GuidaLor

 

Con la figura del “Papa di transizione” si definisce la scelta di un pontefice moderato e in età avanzata che, nel corso di un breve operato, consegni al conclave la chiave di conflitti interni, in vista di un successore dalle prospettive politiche durature e massimamente condivise.
Gli ultimi Papi definiti “di transizione” al momento della nomina, da Roncalli a Ratzinger, hanno però inciso più pesantemente delle attese sulla storia della Chiesa, stravolgendo le previsioni di una politica poco celeste per natura, ovunque abbia sede.

 

Scendendo dalle dinamiche per il soglio pontificio a quelle terrene della segreteria PD, quanto successo con Nicola Zingaretti ricalca infatti l’imprevedibilità delle successioni. L’impatto che il Segretario ha avuto sulla realtà affidatagli da una dirigenza sfibrata dopo anni di diatribe e leaderismi, non si è rivelato per nulla leggero e, alle soglie di referendum ed elezioni regionali, consegna agli elettori, ancora una volta, il corpo stravolto di un partito nuovamente da ricostruire, qualunque sia l’esito delle urne.

 

Tralasciando le note di colore e una certa fisiognomica che rimanda ai prelati di un tempo, al momento della nomina a Segretario, Nicola Zingaretti era stato salutato proprio come il pontiere fra la vecchia, burrascosa segreteria di Matteo Renzi e il futuro nel quale il più grande partito di centro-sinistra si è sempre voluto proiettare, pur consapevole di una atavica mancanza di connessione con il presente: dalla rivoluzione social tralasciata nella comunicazione ufficiale, alle istanze provenienti da impresa e lavoro disattese nei fatti, fino alla sottovalutazione dei metodi di propaganda utilizzati dagli oppositori.

 



 

Ma quanti si aspettavano da Zingaretti una “gestione moderata” e breve, non avevano fatto i conti con la realtà di un partito in disfacimento per la fuga dei big (Calenda, Renzi e codazzi vari), né potevano immaginare lo tsunami sociale generato della crisi sanitaria ed economica più devastante del secolo.

 

Coinvolto suo malgrado in una tempesta senza precedenti, il Segretario del PD si  trasforma in pochi mesi dal rassicurante “Papa di transizione” capace di garantire la tenuta del Partito alle elezioni europee  2019, in cocchiere di un carro sgangherato e carico di scomodi compagni di viaggio, alle prese con l’impervia avventura del Governo giallorosso, già figlia del “Papa nero” Renzi, spostatosi un minuto dopo il matrimonio PD – 5Stelle nella privatissima Avignone di Italia Viva.
E il disfacimento di Zingaretti e del PD avviene per molti osservatori proprio alla prima curva inforcata con coraggio da un uomo mite, per nulla abituato a imbracciare il fucile, anche perchè sprovvisto di un esercito paragonabile a quello degli avversari.

 

Nella cronaca degli eventi, la convivenza con l’anticristo della politica, quei 5 stelle capaci di ribaltare ogni equilibrio e gerarchia del potere, conduce il PD e il suo Segretario  verso percorsi sempre più insidiosi, con la carovana degli elettori che perde lungo il tragitto il senso dei sacrifici fatti e dei bocconi amari ingoiati in nome di una realpolitik assuefatta al primo comandamento: impedire a Salvini di tornare al potere.

 

Le scelte impellenti dettate dalla pandemia e dai suoi risvolti economici fanno il resto:
  • il “Papa di transizione” è costretto a guidare un popolo eterogeneo, scegliendo la via più semplice: piegarsi ai desiderata dei 5Stelle per mantenere in vita il Governo;
  • il partito torna a esprimere gli antichi mali sopiti per qualche mese, con i leader che dissotterrano le asce di guerra;
  • e i sondaggi diventano sempre più deludenti, con la disaffezione dell’elettorato e il rischio di perdere le elezioni in roccaforti storiche quali  la Toscana o la Puglia, dopo aver già consegnato l’Umbria pochi mesi addietro, anche a causa di quel mimetismo che è sempre stato forza e debolezza del politico Zingaretti.



 

Con il caos attorno al referendum si completa la disgregazione politica e leaderistica di Nicola Zingaretti: la fatale vicinanza al grillismo si manifesta con l’indicazione di un “Si” al referendum che scontenta tutti, generando l’assalto dei compagni di viaggio rimasti: se Bonaccini preme con la forza del suo presenzialismo social e televisivo, Gori si erge alla figura di homo novus affiancato da un manipolo di sindaci di peso. E mentre la vecchia guardia inizia a prendere le distanze da alcune scelte fatte nel corso dei mesi, gli ex illustri, da Prodi a Letta, si sperticano in consigli capaci di sovrastare la voce del timido Segretario.

 

Per l’ennesima volta la sinistra (o l’idea che ne rimane) si autodistrugge nel viaggio verso una Eldorado sociale che continua a sognare pur senza riuscire a indicarla nei suoi aspetti più spigolosi: dalla posizione sui migranti al welfare che non si abbandoni alle paghette dei redditi di cittadinanza; dal nuovo mondo del lavoro (smartworking in primis), alle varie istanze sui diritti civili.

 

La figura del “Papa di transizione” viene così smentita ancora una volta nei fatti: la gestione di Zingaretti incide profondamente sul Partito Democratico che, per l’ennesima volta, dovrà ripartire da zero, qualunque siano i risultati raggiunti dal referendum e dalle elezioni regionali: perché non c’è pace a sinistra del padre, quel Berlinguer strattonato mensilmente per ricordare i tempi felici nei quali tutto era più netto e non si ricorreva a pontieri per attraversare il presente.

 



 

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